Il momento è forte e ci prenderemo il tempo necessario.
Come per me, anche per i bambini è il risveglio lo stato in cui pungente emerge
un senso di distacco e di vuoto, un'incredulità. Nel corso della giornata poi
le tante cose da fare e la vasta vita attorno rendono più sensata l'esperienza. Sto bene; la vita berlinese, specialmente in questo quartiere, ha uno
stile unico, rilucente in costellazioni di trentenni e quarantenni sicuri e
forti sulle loro biciclette e nei tanti bar e atelier, di bambini che esprimono libertà fisica e di movimento. Tutto è grande e assume svariate
forme individuali. Mia figlia è molto eccitata e ben disposta, pare provare
un gran sollievo nell'essere tornata, perché ancora non si rende conto e presto accadrà. Oggi si è fatta dipingere la bandiera
tedesca sul braccio. Mio figlio è immerso in una sgomenta malinconia che per ora
lo blocca nella ricerca di una soluzione per tornare indietro. Anche lui si sta prendendo
tempo. Durante il viaggio batteva i pugni contro i finestrini chiedendo di
poter scendere, dichiarando di voler tornare a Firenze anche a piedi. Ho
assistito a una telefonata straziante fra lui e il suo amico di scuola, mio figlio
piangeva affranto dichiarandosi in un incubo da cui voleva uscire, il suo
compagno cercava di consolarlo con una retorica adulta; ho pianto moltissimo
anch'io abbracciando il mio tenero bambino, così fragilmente fedele a ciò che
si guadagna il suo amore. La nostra tristezza era di ugual natura.
Noi abbiamo ugualmente amato Firenze, anche se era un vasto campo di frustrazione
per entrambi. Ancora oggi mio figlio salendo per le scale ha detto "Voglio
tornare nella mia casa, la mia casa è a Firenze". Parla della "sua
bellissima casa", del suo migliore amico che ha "abbandonato e
lasciato solo", dei nonni e delle zie. Io ho detto "La nostra casa
profumava di focaccia" - la fragranza si infilava dal forno direttamente nella nostra casa attraverso le scale e i muri innalzandosi alla vista su Fiesole - e sul loro viso ho visto dipingersi un
dolore.
Il momento è molto forte e forse nessuno di noi tre lo
comprende.
Le prime tre giornate sono trascorse fra l'entusiasmo di
ritrovare un certo pane, un certo sciroppo, un certo parco, la biondissima
amichetta Marta, gli appartamenti con i Dielen che gemono sotto i piedi, le
case di Kreuzberg, le capre placide nei parchi cittadini, e il riaffiorare di una mancanza di
significato profondo, di un'aria che sia casa.
Ci vuole tempo.
Non ho ancora iscritto i bambini a scuola, non li mando
subito, mi hanno chiesto di potersi prima ambientare, hanno molta paura per via
della lingua. Oggi hanno ricucito la memoria con alcuni luoghi, mio figlio si è
rotolato giù dalle collinette del Viktoriapark come faceva da bambino sulla
neve, e pareva beato, come se contemplasse un’emozione piccola e nascosta, una
fiammella. Entrambi hanno cominciato a rispondere “ja” e “nein” alla mia amica
tedesca; soprattutto la bambina sfoggiava un precoce orgoglio. So già in quale
momento e in quale occasione ritroveranno familiarità con la lingua, e
cominceranno a escludermi dalle loro conversazioni e si trasformeranno sotto i
miei occhi, e non riconosceranno me e la mia idea di architettare per loro un’aura
assolata e mite di bambini italiani, verdoline radici di mandorletti bianchi
fioriti.
Mi sento molto lontana e sento la mia famiglia come
separata, non riesco più a provare un’emozione prossima per mia gemella
incinta, e per lo stato di mio padre, che ho lasciato affaticato nel fisico e
nel morale, per mia madre, che non poteva credere che io me ne andassi di
nuovo, di punto in bianco, e per mia sorella grande, che ha i nipotini che le
crescono lontani. Spero che questa interruzione di trasmissioni emotive sia un banale
anestetico che svanirà fra qualche settimana.
Non c’è conclusione a questa narrazione. Ci vuole tempo.