giovedì 12 dicembre 2013

Fratello Gatto

Di Genova mi piacevano i venti foranei, ampi, che infilavano nel porto antico aria dal largo. Scrivendo degli anni liguri, non sono più in questa piatta landa di Brandeburgo, ma sul molo dei Doria, di fronte ai rimorchiatori, in una bava d'aria che increspa appena il mare, accanto a una fila di gabbiani urbani, sotto il serpente della sopraelevata con il suo traffico d'auto, e nient'altro si muove nella città addormentata.
Genova grigia d'ardesia, dorata di tramonti. Genova di cieli voltati a crociera.

Genova è tutta stretta, di sentieri e case in salita, appoggiata su un'instabile terra di torrente, terrazza salmastra di vedetta, castone di vecchie chiese e rolli, affacciata su una linea di mare giallorosa, su cui scivolano lunghe navi e chiatte, talvolta così lontane e ferme sulla curva terrestre da sembrare sospese nell'orizzonte-ascensore pronte a salire in cielo. 

Di Genova mi piacevano i caffè di Sottoripa, via San Luca, via Banchi, piazza Caricamento, stretti e cantilenanti, ritrovi portuali di una città senza più scaricatori, camalli, hammal arabi. L'aria di Genova è tesa da Boccadasse all'Ansaldo, s'infila per i carrugi, s'apre nel sestiere del Molo, solletica il drago di San Giorgio, sale da Palazzo ducale raccogliendo fragranze di focaccia e vermentino, e sosta a Castelletto, prima di ascendere ai monti. A Genova è tutto un gran salire. 

Abitavamo nel porto antico, era la nostra seconda casa. A Genova eravamo dal 1990 e in quel tempo si preparavano le celebrazioni colombiane. Lo ricordo perché dal 1992 qualcosa cominciò a cambiare, a rinascere. Pur venendo dal Salento estremo, da una dimensione anagrafica minuta, di Genova pensai ragazzina che aveva uno spirito morente, scolorito. In città scoprii gli autobus, che non avevo mai usato, e le creuze in salita, che allenarono la mia muscolatura in un modo nuovo.  

La nostra seconda casa era di moderna architettura, e sorgeva nell'antica area portuale dei Magazzini del Cotone. Mi piaceva molto, anche se essendo un alloggio di servizio della Marina militare, faceva difetto di calore. Non solo era esposta al vento, ma le mancava la protezione dei muri vecchi, solidi, delle mura storiche che contengono le case e le incursioni delle brezze.

Forse per questo senso di isolamento e per un'assenza di comunità (eravamo una delle tante famiglie meridionali al Nord, senza parenti né amici, affacciati su un mare estraneo, troppo profondo, e oppressi da monti inesplorabili), decisi di prendere un gatto. Per me un animale domestico (questo lo ricordo bene) significava allora mettere in famiglia tenerezza a compensare tensione, e anche segnare un nuovo inizio nella nostra biografia familiare. Non se ne parlava proprio: non ci si poteva permettere un tale vincolo. Noi eravamo la tipica famiglia migrante, che programmava l'inverno in vista del viaggio estivo verso Sud. Un gatto non rientrava nei nostri piani di spostamento.

Invece lo presi. A quei tempi ero in amicizia con un compagno più grande di conservatorio. Lui abitava in un brutto quartiere, una di queste addizioni di case periferiche sui monti. Sulla cartina tali appendici assumono la forma di serpentine senza sbocco, un'innervazione di strade prive di slarghi e ampiezze nobili. Di bello però Borgoratti aveva l'accesso ai sentieri, e infatti da casa sua partivamo spesso verso le alture a raccogliere more e corbezzoli per le crostate. Lui mi disse un giorno che una gatta del quartiere era stata vista figliare. Lo pregai di portarmi in esplorazione per le sue vie alla ricerca di uno dei mici. Ricordo che guidavo una Austin blu usata, presa insieme a mia gemella appena avuta la patente. Ad una svolta, scendendo in curva, vedemmo un micetto bianco e nero miagolare davanti ad un portone. Il mio amico scese dalla macchina, lo sollevò per la collottola e mi chiese: "Ti piace?". Io dall'abitacolo risposi di sì e mi presi il micio. Il viaggio verso casa fu drammatico, perché la bestiola, non adusa al trasporto su quattro ruote, pensò bene di farsi una passeggiata sul mio cruscotto e sul volante. 

Non so come arrivammo a casa, io e il mio ospite. Questo micetto bianco e nero, entrato nella mia vita un 31 agosto, strategicamente dopo le vacanze estive e il relativo viaggio verso Sud, aveva "una bella faccia tosta" (cito mia madre), una felina sicumera. Sebbene mi fosse stato subito intimato di portare via la bestia, in un modo o nell'altro Silvestro riuscì a rimanere con noi: e per vent'anni.

Di Silvestro, in quest'alba dei suoi ultimi istanti di vita, nel suo tramonto, ricordo tutto. Averlo in casa da piccolo era un divertimento. Ad ogni risveglio non sapevamo cosa avremmo trovato: chiuso in cucina, di notte si sfogava giocando con le patate o con le castagne, facendole rotolare su tutto il pavimento; chiuso in bagno, faceva dispetto a mia madre (colei che lo voleva chiuso, per difendere almeno le camere da letto) mordendo e srotolando la carta igienica, che riduceva poi in brandelli. Ricordo perfettamente, ora che i suoi occhi sono opacizzati dalla cataratta, il suo sguardo vispo e appuntito, lesto nel seguire le farfalle di carta che io e mia sorella preparavamo con grande spasso. Faceva gli "appostamenti" a mia madre: lei entrava in cucina e lui le saltava sui piedi, tirandole fuori un'imprecazione (però secondo me si divertiva, questa madre un po' dura ma sentimentale). Tutto capivamo di lui, io e mia gemella, sue complici: che voleva bere dal bidet (ci guardava seduto in quel trono bianco e fresco, passando la zampa sui fori di uscita dell'acqua - forse per la memoria di fonti d'altura); che voleva dare la caccia alle nostre prede di carta; che voleva acciambellarsi sul nostro letto, accanto alle nostre gambe e sotto le coperte (non ho mai capito da dove potesse respirare); che sapeva aprire le porte di casa saltando e pesando sulla maniglia; che abbassando le orecchie, mettendo il naso e le iridi a punta, e bilanciandosi sulle zampe posteriori, era pronto a scattare. Sulla pelle delle mani porto ancora la testimonianza dei suoi graffi rapaci, dei suoi serissimi giochi. Quanto abbiamo giocato: ore e ore della mia seconda giovinezza (avevo allora diciott'anni) insieme a lui. Per mia madre, nel suo lungo esilio genovese, è stato un rinnovato vincolo di cura, ma anche un'impronta d'infanzia in quegli anni malinconici con la figlia grande lontana; è stato la sua compagnia.

Ricordo ancora i miei studi al pianoforte. Silvestro si metteva in alto, regalmente composto, con la mostrina bianca in ordine, le zampe bianche perfettamente allineate, avvolte dalla coda in avanti - lo strascico ben disposto della sua pelliccia nera. Mentre suonavo, il suo sguardo seguiva le mie dita leste sulla tastiera: anche a loro faceva gli appostamenti, interrompendo Chopin con un cluster.

Fratello Gatto, in quale stella ti trasformerai quando lascerai questo suolo? Sei un testimone di famiglia. Ci hai seguiti in tutti i nostri viaggi, in tutti i traslochi, in tutte le nuove case, giocando con gli scatoloni e protestando in auto. Ricordo la tua voce quando eri piccolo. Ci hai messo tantissimo a dire il primo "mao": forse non ci ritenevi degni? Voce di ragazzino. Nella tua adolescenza, eri brutto: ti si era allungato il corpo, mentre il muso era rimasto piccolo. Avevi perso gli occhioni da micetto, e non avevi ancora il piglio del gattone. Poi sei diventato il vero padrone di casa, padrone della poltrona, del balcone e del pesce che rubavi a mia madre.

Sei stato il compagno delle sue lunghe mattine silenziose. Tornando dal mercato lei ti salutava, e mentre pelava le patate ti poneva delle domande, come si fa con i neonati muti. Come la tivù, tu non rispondevi, ma eri una presenza invadente. E poi sei andato a stare con mia gemella, che per anni ha desiderato un bambino. Avevi un'adorazione per mio cognato, anche lui così duro e commosso nel prenderti in giro, perché non ti staccavi dai suoi piedi.

Fratello Gatto, ora che te ne stai andando, vorrei riportarti nella tua Genova. O forse sono io che ho nostalgia del suo porto, del suo vento. Andiamo insieme a trovare la Superba.

Sei stato con noi sinché è arrivato un nuovo bambino in famiglia. Nove anni di speranza, nove mesi di attesa. E tu eri lì a raccogliere l'infinito bisogno di tenerezza. Ora che il bambino è qui, nelle braccia della sua mamma, tu ti spegni lentamente, ci lasci, come ogni spirito che abbia compiuto il suo ultimo dovere.

Andiamo a Genova insieme, ascendiamo a Borgoratti e saliamo sino alla vetta più alta, sino ai boschi delle lucciole. 

Era così bello avere l'età che avevamo.