martedì 10 maggio 2011

Intercity Notte

Quando si sale sull’Intercity notte, si incontra un’Italia che negli aeroporti, nelle riviste non si vede mai: cittadini maschi di provenienza nord-africana che viaggiano senza donne e donne dell’Africa continentale che occupano lo scompartimento solo in gruppo; giovani professoresse dirette al Nord che il lunedì mattina saranno stanche in classe dopo il viaggio; coppie meridionali al termine della visita ai figli lontani (carichi di conserve e caciocavalli all’andata, muti come cani battuti al ritorno: li si riconosce dagli abiti, dalle valigie vecchie, dai cartocci coi panini, dalle mani); calabresi che arriveranno al capolinea quindici ore dopo e che quando parlano al telefono avviano senza preavviso una lingua incomprensibile, dura, aspra, rocciosa, una lingua da capre, da montagna, sopravvissuta non si sa come sino ad oggi.
Tutta questa gente porta con sé un certo odore. Lo percepisco distintamente. In questo scompartimento della carrozza 7 viaggia un ragazzo calabrese, che mi dà del Voi: passa il tempo al telefono e tiene la mano libera dalle conversazioni sulla zona dei genitali, a mo’ di conforto, mentre comunica alla madre – se ben capisco – quando mangerà i panini da lei preparati col caffè freddo in bottiglia. Di fianco due allegri ragazzi maghrebini chiacchierano continuamente, passando dall’italiano, di accento modenese, all’arabo; gli altri occupanti sono un ragazzo discreto, che se ne sta sempre in corridoio, sospeso all’altro capo della linea cellulare da cui immagino gli parli la sua ragazza, e un uomo piccolo, mal vestito, che fra un po’ comincerà a russare. In mezzo ci sono io.
Arrivare alla stazione di cambio di Milano Centrale è un sollievo, per la più vasta umanità e la maggior luce che vi si trovano. Se una ragazza ha da temer qualcosa, è nelle piccole stazioni durante i cambi, dove a sera s’annidano maniaci di tutte le fattezze e preferenze e vari personaggi che passano da un treno all’altro, da una stazione all’altra cercando di accorciare la loro notte – senza tetto e senza letto.
Quale motivazione spinge una ragazza a mettersi in viaggio di notte? Il viaggio stesso, l’incontro con il vario bestiario umano, e forse qualcos’altro che magari, chissà, più tardi sarà da maledire.
L’abbigliamento più comodo è un grazioso vestitino bianco a fiori lilla in maglina, che si ferma al ginocchio con un elastico: lì dentro faccio scomparire le gambe raccolte e i piedi nudi: una grande sciarpa viola mi ricopre tutta. Ogni viaggiatore notturno aspetta che il posto a sedere davanti a sé si liberi per poter distendere le gambe. Qualcuno attende anche che il treno, ruggendo da campi a città, suggerisca nell’orecchio un verso, una bella parola da scrivere.
Questa domenica va di lusso: rimaniamo in tre, e ognuno si prepara la sua branda, dove si rigirerà cautamente tutta la notte, sinché il mare illuminato dall’alba non ci sorprenderà a Termoli.
Il ragazzo calabrese risponde al telefono molto presto, con un suono indistinto, simile ai richiami del pastore verso le pecore. Dopo che ha finito di shakerare il suo caffè nella bottiglietta di vetro, parliamo un po’. Mi dice con una faccia bruciata, alzando sopracciglia e spalle, che giù in Calabria non c’è lavoro, non c’è niente per occupare il tempo, a parte ricorrere allo “sballo”, che nelle campagne vengono impiegati solo extracomunitari che fanno “la bella vita” mentre lui è senza lavoro da nove mesi: la linea degli occhi si abbassa sotto il peso della pena nel rievocare le ore di noia, le giornate senza occupazione passate ritirati in camera, i ritrovi con gli amici sfaccendati per le strade vuote, nelle piazze destinate ai vecchi e ai cani. Eppure quando parla del suo paese, della costa di Capo Rizzuto, delle pietanze genuine preparate dalle madri (non ho conosciuto madre calabrese che non ritenesse il cibo industriale una diavoleria, un peccato mortale verso i propri figli), gli si illuminano gli occhi.
Da un’ora e mezza la chiavetta cerca la rete per connettere il mio computer al mondo fuori di questo treno. Mi è impossibile lavorare. Il male cronico di queste terre sta nel ritardo irrimediabile, e nell’abbandono, nella rinuncia, nell’alzata di spalle che assolve i peccati come le avemarie al termine della confessione. Per vivere qui non ci si deve porre domande: bisogna essere come capre sui sassi, o imprenditori ostinati che si sostituiscono al pubblico riparando da sé le inefficienze locali. Altro è arrivare dal cielo con l’aereo, giungere in un trullo ben arredato, ricevere l’impressione di ulivi e gelsi e, senza lasciare traccia né lacrime, con ugual mezzo andar via verso nord, ignorando i cani che passano la vita legati alla catena, le ragazzine che possono uscire solo accompagnate da un familiare, i ragazzetti arroganti che hanno la testa china e lo sguardo fragile, così basso da non vedere oltre lo Jonio.