sabato 25 dicembre 2010

Motel 2512

L'appuntamento era davanti al cinema Roma nell'omonima piazza. L'ho visto nella macchina, ho bussato al finestrino di destra: "Sono ammessi i ritardatari?". "Dipende - ha detto lui -, dipende dalla simpatia".
"Dove andiamo?" - chiedo. "A Natale non so cosa troviamo di aperto - dice -, intanto andiamo".
Sulla provinciale sfiliamo accanto alla coda di macchine dirette al multisala. Noi puntiamo verso Como. I locali hanno le luci spente, sono solo le 5 del pomeriggio, forse apriranno più tardi. Passiamo dal ristorante di un suo amico: "Stiamo chiudendo, ce ne andiamo tutti al cinema, io e gli altri. Facciamo il Natale insieme".
Troviamo solo il bar della stazione di Fino Mornasco, ma sembra triste. Intanto parliamo fitto, dei figli soprattutto, della crisi in Italia: è il primo appuntamento dopo l'incontro al bar. Quella mattina avevo appena portato i bambini a scuola e mi ero fermata a prendere un caffè prima di andare a correre. Indossavo i jeans e un cappellaccio rosso. Col barista si parlava come al solito della Germania, era rientrato due anni prima da Ravensburg e stava pensando di tornarci. Lui ad un certo punto si era intromesso, avevamo cominciato a parlare in tre; poi il barista era stato chiamato per un'ordinazione ed eravamo rimasti in due a commentare la situazione italiana. Prima di andare al lavoro mi aveva lasciato il telefono, io l'avevo salutato e mi ero messa al tavolo per scrivere qualcosa. Dopo mezz'ora avevo chiesto al barista di poter pagare il caffè: "Te lo ha offerto Marco". Gli avevo allora inviato un messaggio di ringraziamento, e così senza pensarci gli avevo fatto avere il mio numero. Da quella mattina però non ci eravamo più sentiti.
Oggi mi ha mandato gli auguri. Era solo con i figli grandi; anch'io ero a casa con i bambini. Ci siamo scritti: "Dai, prendiamo un caffè nel pomeriggio".
Lui è un imprenditore, non si lascia scoraggiare dai bar chiusi. Mi dice: "Andiamo in albergo". Io: "Scusa, non ho capito". "Sì, prendiamo una stanza così abbiamo da sederci e da stare in pace". Non sono riuscita ad oppormi, credo di essere diventata silenziosa per qualche istante. Intanto lui aveva imboccato l'ingresso e aveva fermato la macchina. "Mi serve anche il tuo documento". Torna con la chiave, riavvia il motore e parcheggia la macchina davanti alla porta numero 48. Mi sembra d'aver già visto questo motel, forse nel film "Cosa voglio di più". Scendendo dalla macchina lui dice: "Bello è quando gli altri ci danno fiducia". Io ribatto: "Ancora più bello è quando diamo fiducia a qualcuno che ci delude e nonostante questo continuiamo a fidarci della gente".
Mi dà la chiave, entriamo, fa molto caldo dentro. Si toglie la giacca e si dirige disinvolto verso il frigo-bar. "Prosecco?". E così brindiamo al Natale, nei bicchieri di plastica che non tintinnano, io seduta sul divano bianco, lui di fronte a me sul letto bianco. Accendiamo la tv su un programma musicale per fare un po' d'allegria. Lui dice: "Vedi? Così è perfetto: stiamo in pace, possiamo parlare".
Rimaniamo in quelle posizioni, con il bicchiere in mano e gli occhi mobili per due ore. Gli chiedo del matrimonio finito, lui mi parla dell'instabilità mentale dell'ex moglie, del male che gli ha fatto, del sollievo quando il giudice ha affidato i figli a lui e della promessa che ha fatto ai bambini di non portare nessun'altra donna in casa. "Quella promessa l'ho mantenuta. Ricordo un Natale di cinque anni fa, ero solo, i bambini erano con la madre, i miei amici festeggiavano con le loro famiglie: ho pianto tutta la sera. Ora sono stanco. A 39 anni ho voglia di una donna che sia la mia compagna, che sieda affianco a me in macchina. Sinora non ho trovato nessuna, hanno tutte paura della vita, sono piene di ma, di se. Queste cose le ho dette per la prima volta a te, adesso".
I suoi figli hanno tutto, capi firmati, scarpe di tendenza, frequentano i corsi più esclusivi. Chiedono ed ottengono. Lui teme che stia sbagliando completamente. Che lo abbandoneranno lo stesso, nonostante tutto. "Vorrei mandarli a fare la fame all'estero, qualche volta". Ma poi s'intenerisce di nuovo, parla del biglietto che la figlia gli ha scritto per Natale.
Gli chiedo dell'Italia: "Che sta succedendo?". Lui è imprenditore, dovrebbe saperlo. Mi dice che ci vorranno dieci anni per uscire dalla crisi, che ancora non abbiamo visto il fondo. Che in Italia c'è una contabilità parallela, quella in nero, che regge molte imprese, per cui la caduta non è verticale ma a spirale. Dice che tutti gli imprenditori sono costretti a pagare tangenti per lavorare, per prendere gli appalti, e che quando c'è crisi l'imbuto si restringe, e questo vuol dire che chi vuole lavorare deve pagare più tangenti degli altri ed essere più competitivo, cioè usare materiali più scadenti, pagare meno i dipendenti, i collaboratori. Mi dice: "Ma sai quante case sono fatte di sabbia, di terra? Dopo un anno e mezzo sono già piene di crepe, nei garage si vedono le infiltrazioni".
Mi dice: "Se puoi vai via dall'Italia. Io me ne vado in Australia, appena i miei figli finiscono il liceo".
Si sta bene nel motel, fa caldo. Il canale musicale non passa neppure una canzone accettabile.
Finiamo il mignon di prosecco, apriamo il succo d'ananas. Poi dice: "Ora andiamo". Sono le sette e mezza. Forse deve rientrare per cena. Dai figli.

Siamo stati nel motel a parlare dei matrimoni finiti e delle nostre preoccupazioni di genitori, per brindare a un anno che entrambi desideriamo pieno di avventura, di amore. Un amore però giusto, bello, senza paura. Come una casa con il camino e il bosco appena fuori, o come un motel sempre aperto, 24/7.

martedì 21 dicembre 2010

Il nido di ragni

Girò la chiave e lentamente entrò. Sul divano accanto alla porta stava, quasi sdraiato, il padre in ciabatte. La televisione urlava un qualche commento su un personaggio politico. Dalla cucina veniva odore di minestra. Le dieci del mattino.
Si chiuse in camera e aprì il libro. Dal soffitto si diffondeva la rauca voce della vecchia di sopra che sgridava il marito. Discutevano per ore insultandosi sullo sfondo dei programmi televisivi. Probabilmente erano quasi sordi e il volume nel loro appartamento riusciva ad infiltrarsi come muffa sino a sotto, attraverso quei muri inconsistenti di nuova costruzione che da settembre a maggio restavano freddi. Tutta la provincia era una metastasi di palazzine di finti mattoni con finto marmo e finte inferriate, delimitate da rotonde e accessi alla tangenziale.
Due ore dopo cominciò una trasmissione di cucina, la madre alzò il volume e si sistemò in punta sul divano con un foglietto di carta per appuntare le ricette. La ricciuta conduttrice impostava la voce su toni acutissimi per tenere sveglie le spettatrici e parlava con gaudio delle proprie rotondità, ottima referenza per il libro di cucina che le avevano appena pubblicato. Dalla sua camera poteva udire tutto, ma riusciva a restare concentrata sul libro. Da giorni non mangiava più a tavola con i genitori. Era diventata sensibile ad ogni rumore di deglutizione, al cucchiaio tuffato a colpi rapidi come un remo nella minestra, ai programmi di sottofondo raddoppiati dai commenti frammisti alla masticazione. Quelli di sopra ora spostavano mobili e passavano l'aspirapolvere e intanto inveivano uno contro l'altra in brianzolo.
Era tornata dall'estero per rimanere solo un mese, ma si era subito pentita di quel progetto. Il mese le sarebbe costato caro, si era sentita mordere dalla insofferenza già il primo giorno. Una prova di resistenza alla versione più brutta della provincia italiana.
Alle due si passò a canale 5 per una lunga serie di soap opere. Dalla classica americana alle novità nazionali. Lo schema era sempre quello: mettere in scena le emozioni più basse, dalla gelosia alla paura del tradimento, e le situazioni più temute nelle fantasie delle donne, dalle gravidanze segrete agli stupri, al disfacimento di un matrimonio durato trent'anni. Ma non c'era catarsi: l'intento di ogni soap era quello di far vivere situazioni in maniera vicaria a casalinghe che passavano la vita in casa, di sviluppare dipendenza da quell'immaginario di passioni. Passando dalla camera alla cucina per prendere una mela, vedeva infatti sua madre sul divano con il viso leggermente arrossato e un sorrisino sulle labbra mentre sullo schermo un lui cinquantenne dichiarava il suo amore a lei. Alle due del pomeriggio, si finiva sempre in un letto a consumare un tradimento, e così le casalinghe potevano eccitare il bassoventre e le gambe e tenerli buoni sino all'indomani alle due. Nel far questo, i produttori spingevano le spettatrici verso un livello bassissimo di consapevolezza: le spettatrici, cioè le nostre madri, le educatrici della nuova generazione, le educatrici dei nipoti, le portatrici di valore per le nuovissime leve, dopo aver cucinato e cresciuto figli e arredato case, cambiato lavatrici e servizi di piatti, ora si consolavano con gli amori vicari, mal recitati.

Quello che le faceva più male era vedere il fratello totalmente a proprio agio nella situazione. Pensava agli amici d'Amburgo nelle case alte d'inizio secolo con il legno che scricchiolava sotto ai piedi e le finestre ampie senza tende affacciate su una strada che conduceva al porto dalle grandi navi e al silenzio nei muri, nelle stanze, alla musica radiofonica nella cucina aperta, all'odore di tè e di pane nero biologico. Guardava risentita il fratello immerso nella bruttura dei rumori trascorrere il suo sabato negli outlet e il tardo pomeriggio nella scadente atmosfera mondana degli happy hour. Davvero voleva quello? Davvero era felice così? Aveva più di trent'anni e sembrava che il suo mondo finisse con la tangenziale; due volte all'anno si apriva verso le rotte low cost programmate mesi prima.
A cena il padre talvolta abbassava la tapparella perché i vicini non guardassero in casa. Il telegiornale nazionale parlava delle protesi al seno della moglie di qualcuno. La madre faceva il conto dei soldi spesi in farmacia per il bruciore allo stomaco. Il fratello parlava della coda all'uscita di Cormano.
Lei. Lei era come in un film girato in una lingua sconosciuta, pieno di rumori e di silenzi brutti.

Quello che viveva dentro casa, si amplificava fuori. Di tanto in tanto andava a prendere all'asilo la nipotina, figlia della sorella sposata. Ogni volta veniva aggredita dal rumore di quegli ampi saloni. Per dare forse un'idea di allegria, le maestre mettevano ad alto volume un cd di canzoni per bambini che si diffondeva negli spazi sommandosi ai pianti dei bambini sfiniti e accaldati per la mancanza d'aria fresca, ai drammi delle bambine che non volevano camminare a piedi, ai richiami stizziti dei papà che avevano parcheggiato in seconda fila e alle voci dialettali di talune nonne che strattonavano i bambini per convincerli a muoversi. Nell'insieme un inferno grottesco.
Lei. Lei era come in un film girato in un manicomio da cui avrebbe voluto uscire portandosi dietro la nipotina.

Per fuggire, andava a Milano. Al caffè Mercanti chiacchierava con i camerieri che, seppur impeccabili, già al mattino sembravano non averne voglia. Poi s'infilava nel Palazzo della Ragione dove rimaneva un'ora. Se passava dalla Ricordi comprava una riduzione per voce e pianoforte e solitamente finiva al cinema Anteo.
Neppure quelle boccate d'aria però bastavano. Aprendo la porta di casa, si ritrovava davanti lo stesso scenario: la madre che preparava il tè sbadigliando; la nipotina che batteva su un gioco elettronico; il padre che consultava la pubblicità del supermercato commentando ad alta voce il prezzo del parmigiano. Sul calendario, gli appuntamenti dal medico per i più svariati controlli. In televisione, l'intervista ad una madre che piangeva davanti alle telecamere la scomparsa della figlia. I coniugi di sopra rauchi e astiosi. Dalle finestre le brutte case di piccolo-borghesi bramosi di un giardinetto di proprietà. In camera, suo fratello al computer aspettava che la cena fosse pronta. Lei non mangiò. Entrando in cucina, gettò uno sguardo sulla sala da pranzo: i tre cenavano formando un quadretto desolante, con il quiz davanti agli occhi; la nipotina la seguiva attaccandosi ai suoi jeans. Suo padre e suo fratello parlavano di autostrade e da quella prospettiva sembravano uguali: il collo piegato in avanti, il doppio mento, le mani paffute gesticolanti, lo stesso modo di mettere in fuori il labbro inferiore e di finire le frasi con un tono competente su tutto. La madre provava a dare le risposte al quiz e sbagliava. Ogni tanto esclamava "Sant'Antonio mio!".
Erano meridionali, ma sembravano provare gusto a tentare la cadenza brianzola. Ridevano soddisfatti quando la nipotina diceva "urka" e le insegnavano a ripetere "biutiful, biutiful". Lei, la bambina, batteva le mani. Le importava solo che in virtù della sua grazia le regalassero le scarpine di lelly kelly col tacchetto, il pigiamino di hello kitty e i trucchi di barbie. Finiva tutto il budino e la nonna schioccandole un bacio diceva: "Brava a nonna! Tutto il budino ti sei mangiata!". La bambina era ben contenta delle attenzioni e ben pasciuta.
Le attenzioni erano penetranti. Tutti si occupavano sempre di tutto. Se la madre cucinava, il padre le stava dietro e guardava, occupava lo spazio in cucina. Se lei lavorava al computer, qualcuno le veniva affianco per dirle qualcosa, una qualsiasi inezia. Se la bambina mangiava, la nonna doveva accompagnare ogni boccone con un commento o un "ham!". Mangiare non era mai un fatto privato, discreto, contemplativo. Bisognava sempre mangiare insieme, in pubblico e, mangiando, parlare di cibo. Se non fossero emigrati, se fossero rimasti al sole, se fossero rimasti nelle loro campagne sotto gli ulivi, con il loro pane e le questioni locali di cui occuparsi, non avrebbero avuto più amici, non si sarebbero forse salvati?

Lei studiava canto barocco ma, in quella casa, diventava muta. Esporre il suo canto a quelle pareti, ai vicini di casa, all'incessante vociare della tv sarebbe stato come uscire nuda dalla camera e sedersi a tavola. Non voleva che la vedessero, che la guardassero, che mettessero su di lei le loro attenzioni. Andava nel parco a vocalizzare. Aspettava che piovesse, anche poco: allora non ci sarebbe stato nessuno. Con la pioggia si guardavano bene dal mettere il naso fuori tutti quei vecchi che popolavano quella regione di arricchiti e auto sovrannumerarie. Ma se splendeva il sole uscivano tutti ad intasare le strade, a rallentare gli altri, a riscaldare con gli aliti i negozi.

Lei pensava solo che doveva passare un mese. Passare un mese. Un mese.

Il nido dei ragni: motivazione

Cara, che bella lettera mi hai scritto, di te mi dici veramente tante cose. Capisco perfettamente come ti senti, e, come te, provo rabbia verso questo Paese che sta facendo sfumare la nostra vitalità, avvilendo le forze di noi trentenni. Noi salteremo, amica mia, a pie' pari la vita, se continuiamo così; sono i ventenni che prenderanno il timone. Forse era il nostro destino, quello di mollare le convinzioni di crescita continua, di reggere la voltata di pagina. Per questo insisto molto sulle questioni spirituali: dobbiamo essere preparati ai crolli. Per non vivere le contraddizioni dobbiamo abbandonare le idee che abbiamo continuato ad inghiottire da bambini: che avremmo studiato a lungo e certamente ottenuto un buon lavoro con cui guadagnare bene, per comprare una bella casa, bei mobili e tanta tecnologia. Naturalmente c'è chi vi è riuscito. Ma la massa di noi trentenni boccheggia e prova l'umiliazione di farsi mantenere dai genitori. Avrebbe poi senso come progetto una copia della vita della generazione passata? Dico che è attraverso di noi che passa la crisi di un sistema di convinzioni, e noi dobbiamo reggere lo strappo. Vedere, cioè, già l'oltre, l'alternativa. Altrimenti ci affossiamo, affondiamo.
Il problema è allenarsi a vedere un'alternativa al momento invisibile. Questa è la cosa più difficile. Non riesco a comprendere come io, la mia generazione, possiamo ancora incidere. Siamo destinati solo a reggere il passaggio da una società tradizionale a una fluida? Non c'è un po' di gloria in vista per noi?
Scrivi: "Questa situazione ha offuscato tutti i miei obiettivi, tanto che io non so più in fondo chi sono e in che direzione sto andando". Lo stesso smarrimento ci accomuna. Purtroppo ti devo dire che l'avevo già vissuto dopo la laurea, più di dieci anni fa: e ora il medesimo stato si è ripresentato, ci sono inciampata di nuovo. Allora avevo cercato di evadere e trovato in Francia un uomo tedesco abbastanza pazzo da portarmi via da dov'ero (avevo avuto per otto anni una relazione con un ragazzo più grande di me che come unica prospettiva aveva di comprare l'appartamento sotto quello dei genitori) e lasciare tutto per me. Sono rimasta incinta dopo pochi mesi ed è cominciata l'avventura, da Lille a Lecce a Berlino, dopo due anni è arrivata la seconda figlia. Quell'uomo si è rivelato poi inadeguato e mi ha fatto anche molto male, ma lo ringrazierò sempre, non solo per i figli, ma perché allora mi ha fatto uscire da una situazione di blocco, di vicinanza nociva con i miei genitori. Mi sentivo vecchia a 25 anni, perché respiravo l'energia stantia, conservatrice e immobile di quella casa. Ricordo che mi guardavo le gambe e pensavo che si stessero gonfiando per la cattiva circolazione. Lui mi ha portata a Bruxelles, in Svizzera, mi ha trascinata nella vita vera. 

A volte penso all'India o a paesi emergenti dell'Africa. Non posso però sradicare così i miei figli. Allora immagino di tornare a Berlino, di ricominciare da lì. O di aprire in Puglia un centro di yoga, meditazione e musica di campane tibetane solo per bambini, con una piccola biblioteca e una fattoria su modello olandese. Una vera sfida culturale. La vita al momento è tutta in testa, nelle idee, nei polpastrelli che scrivono nel formato web 2.0.
A proposito del blog, stavo pensando che ci ho messo sei anni dal parto, e un anno dall'allontamento da Berlino per scrivere "le mie memorie". Prima, per qualche ragione, non riuscivo. Ora mi manca l'ultimo tabù: scrivere di questa situazione con i miei genitori, del grottesco che vivo ogni giorno. Penso che solo così potrò purificarmi: quando tutto sarà via, messo in distanza, usato come materiale da scrittura. Allora i pensieri marci non stagneranno più. Per questo non dormo stanotte: voglio provare a mettere questa bruttura sotto le dita.


Cinzia

 

lunedì 20 dicembre 2010

Se questa è una Donna - esperienze di parto

Mi hanno registrata; mi hanno fatta spogliare; mi hanno detto di indossare la camicia da notte; mi hanno rasato il pube; mi hanno applicato un clistere.
Dopo questo trattamento se ne sono andate, lasciandomi lì a lamentarmi; mi guardavano ostili, come se avessi fatto qualcosa di male. Varcata la soglia dell'istituzione, sentivo che mi avevano sottratta al mondo esterno, e che da quel momento era inutile protestare.
Le contrazioni aumentavano e io avrei voluto cambiare posizione, alzarmi sulle ginocchia o mettermi giù accovacciata sui talloni. Loro venivano e mi facevano ridistendere a letto: vedessi di non fare troppe scene.
Dopo tre ore di travaglio, in cui ad ogni contrazione sentivo le ossa del bacino aprirsi, divaricarsi, e il ventre come spaccarsi, un dolore alla schiena come di ferro, mi hanno caricata sulla barella e depositata contro un muro, nell'anticamera della sala parto, un luogo freddo e nudo. Lì una donna che mai avevo vista prima, mi intimava di spingere: Non lo vuoi aiutare il tuo bambino? Io ero in panico, il dolore era più forte di qualsiasi cosa avessi mai immaginato e non potevo tornare indietro, chiedere una pausa, riprendere il respiro, quella cosa immensa e dilaniante andava avanti senza di me. Non ero preparata, al corso avevano parlato di norme igieniche, più che altro, e raccomandato di non mangiare taluni alimenti durante l'allattamento. Ora mi trattavano come una bestia, come una ridicola bambina viziata che vada raddrizzata. Dopo qualche tempo trascorso in quell'anticamera, mi hanno fatta avanzare sulla barella in sala parto, un luogo tutto neon e acciaio, freddissimo. La dottoressa stava lì senza esprimere alcuna simpatia umana, ridicola con la sua cuffietta verde, e sembrava infastidita da un parto alle otto di sera. Ad un certo punto del travaglio ha tirato su una lama e mi ha tagliata con decisione, ho sentito il freddo improvviso del metallo sulla carne. Il bambino è stato tirato fuori ma io non ho potuto vederlo, ho chiesto se fosse maschio, come sembrava dalle ecografie, ho implorato Fatemelo vedere, fatemelo vedere!, ma la procedura andava avanti oltre noi, oltre mio figlio, che nel frattempo veniva pesato, misurato e vestito, oltre il mio desiderio di vederlo, di conoscerlo nel suo primo istante fuori del mio ventre, nel suo primo atto di respiro, andava oltre il nostro diritto ad annusarci, ricompensarci per la fatica vissuta insieme. La ginecologa ha ignorato il mio pianto e ha preso a cucirmi il taglio, senza anestesia, e io con gli occhi sbarrati non potevo credere, non potevo credere che lo facesse davvero, che mi passasse l'ago e il filo, che potevo ben vedere, là sotto, dentro tutto quel dolore, come se fossi una bestia al macello.
Ho visto mio figlio quando mi hanno riportata in stanza. Era nella culletta, vestito della tutina gialla che avevo preparato. Era blu ed è rimasto così per molte ore. Mi sembrava triste. L'ho messo subito al seno e l'ho amato dal primo istante. Ma ero piena di rancore e delusione. Avevano rovinato irrimediabilmente il nostro primo incontro, tanto atteso, lo avevano accolto con luci fredde e acciaio, senza amore, distante un universo intero dal mio grembo, dal mio calore, dalle mie grida sul banco dei parti in serie.
In quella clinica a Lecce, mi proposero da subito latte artificiale per non far piangere il bambino nell'attesa della montata lattea, che poteva durare due giorni, e io mi rifiutai astiosa. Feci una cosa che nessuno poté capire, per effetto di un istinto antichissimo. In stanza con me c'era una donna che era al suo quarto parto. Il suo seno aveva subito risposto al programma ormonale ed era così pieno che le faceva male: temeva anche che l'eccesso di latte lo intasasse. Ci siamo guardate, è stato un attimo. Lei ha capito subito. Mio figlio piangeva, le ho detto Me lo allatti tu? Lei è stata la prima donna che ha nutrito mio figlio. Le sarò per sempre grata per quella complicità. Si è allora creato fra noi due donne un legame che ancora oggi sopravvive. Il 16 novembre ogni anno ci scambiamo gli auguri per il compleanno dei nostri figli, nati a mezz'ora di distanza.
Di giorno ogni tanto venivano le donne e mi portavano via il bambino, mi dicevano che doveva stare un po' nel nido. Ogni volta che allontanavano la sua culletta diventavo triste. Piangevo al telefono con mia sorella. Mi sentivo impotente, la procedura era priva di senso, ma non si poteva protestare, il rapporto con il mio bambino era determinato dall'istituzione. Io e lui non contavamo.
La mattina prima di dimetterci portarono noi neo-mamme in una stanza dove ci mostrarono come fare il bagnetto al pupo. Le ostetriche fecero il primo shampoo ai neonati, con un prodotto Chicco pieno di profumo. Ci dissero che il corpo e la testa dei bambini vanno lavati ogni giorno.
Io e mio figlio abbiamo impiegato moltissimo tempo per recuperare quel primo strappo. Abbiamo poi dormito molte notti insieme a letto. Per lui il paradiso era addormentarsi al seno, non perdere il contatto, sentire che non lo lasciavo solo.

* * *

Diciannove mesi dopo, a Berlino, sotto altre condizioni, è nata mia figlia.
Sono arrivata nella città incinta di quattro mesi. Dopo aver trovato casa la prima cosa che ho fatto è stata contattare la Hebamme, l'ostetrica che l'amica di una conoscente mi aveva consigliato. Durante i due mesi di preparazione al trasferimento da Lecce a Berlino, sulla base della borsa di studio del mio ultimo anno di dottorato, ho soprattutto cercato alternative a un'esperienza di parto che avevo vissuto come una violenza sulla persona. Sapevo che in Germania un attivo movimento di donne già da tempo si batteva contro l'ospedalizzazione delle partorienti per un ritorno al parto in casa. Queste donne erano sostenute da un fermento di idee che coinvolgeva anche i medici e che aveva avuto come esiti una cultura del parto naturale (mentre nell'Italia meridionale una percentuale incomprensibilmente alta di donne subiva il taglio cesareo), una diffusione del parto dolce, del parto in acqua, una lotta contro l'allattamento artificiale che era indiscutibilmente dannoso per il bambino e insano per la relazione madre-figlio (circolavano ad esempio testi che incoraggiavano le donne ad allattare il bambino sino ai tre anni), una ritrovata titolarità della partoriente rispetto alla possibilità di scegliere come partorire. Le donne in Germania portavano il neonato nel Tragetuch, una fascia in cui lo avvolgevano sino all'incirca ai nove mesi, perché durante la giornata, in casa o fuori, rimanesse il più possibile a contatto con la madre, con i suoi odori, la sua voce, il suo battito. Si prendevano ad esempio le donne africane che svolgevano tutti i lavori con i figli avvolti sulla schiena o sul petto, permettendo così al piccolo di apprendere indirettamente i movimenti naturali del corpo e di essere nel mondo con un senso di sicurezza e vicinanza. Questi movimenti di idee erano non solo contro l'allattamento artificiale che causava fra l'altro allergie, ma anche contro tutti i surrogati materni: contro il succhiotto e contro il passeggino che (pensiamoci bene) è un artefatto imposto dal mercato, nefasto perché costringe il neonato alla solitudine, alla separazione dal corpo della madre, che è la prima fonte di apprendimento, all'immobilità sulla schiena, ad un approccio al mondo da una posizione costretta.
Scoprivo che si poteva arrivare al parto in modo consapevole. Da subito, senza neppure conoscere la lingua, mi inserii nel corso di accompagnamento alla gravidanza e preparazione al parto. Era un universo completamente diverso, sconosciuto. Katrin, l'ostetrica che avevo scelto, faceva un lavoro con noi donne che io comprendevo in modo intuitivo, per imitazione e con l'aiuto dell'inglese. Ci faceva entrare nel nostro corpo. Da lì partiva l'esperienza consapevole del parto. Ci mostrava filmati di parti naturali secondo il metodo del medico Leboyer, in cui si vedevano uscire i bambini dal ventre senza contratture, senza traumi. Il metodo proponeva che la donna nell'atto dello spingere emettesse dei suoni come un canto anziché grida. Infatti, gridare vuol dire resistere al dolore, contrarsi, e quindi impedire al parto di procedere. Emettere suoni vuol dire accompagnare la spinta, andare incontro a quel dolore immane senza irrigidirsi, senza bloccarlo dentro, tirarlo indietro. Erano scoperte affascinanti. Capivo che la donna poteva amare il suo corpo e dialogare anche attraverso il dolore con il proprio bambino. Scoprivo che la gravidanza è una preparazione a un rapporto che è innanzitutto con il proprio corpo. Un'immersione nel proprio mistero. Un'accettazione del mistero. Infatti, quella furia dell'ospedalizzazione, quella mania di medicalizzazione, quel ricorrere ogni mese ad ecografie, controlli, quell'abdicare completamente ai medici e alle infermiere non era forse una rinuncia al mistero, all'insondabile, alla forza della vita che da sola decide, avanza, ripara, provvede? Un rinunciare alla propria competenza istintiva, naturale? Ad assumersi le responsabilità della scelta?
E così io decisi di non partorire in ospedale. Mai più avrei subito quel trattamento, la deposizione degli abiti "civili", la depilazione forzata del pube, il clistere. La mia ostetrica tedesca, Katrin, faceva partorire le pazienti nella sua Geburtshaus (letteralmente "casa della nascita"), una graziosa casetta nella prima campagna della ex Berlino Est.
Un giorno di luglio sentii, come per il primo parto, fluire lungo le mie gambe un liquido sottile e caldo: il liquido amniotico. Riconobbi il segnale - era mattina - e avvisai l'ostetrica. Accogliendomi nella Geburtshaus, mi fece sistemare nella bella camera, con le pareti dipinte di rosa, il letto matrimoniale romantico, la finestra che dava sulla campagna e una sedia a dondolo posta a lato del letto dove lei si accomodò durante il travaglio. Dalla stanza si accedeva al bagno dove era disponibile la vasca per il parto in acqua. L'attesa durò moltissimo: di fatto forse un'unghietta della bambina aveva forato il sacco e fatto fuoriuscire un po' di liquido, ma in realtà le contrazioni non erano cominciate. Quindi l'ostetrica mi propose di fare una passeggiata fuori in campagna per le vie che passavano accanto ad altre case simili alla sua: al rientro ci mettemmo a chiacchierare e, siccome era ormai ora di pranzo, spedimmo mio marito a cercare qualcosa da mangiare, compito non facile in quella zona desolata e periferica della città. Tornò dopo mezz'ora con hamburger e patatine: aveva trovato solo un fastfood aperto vicino ad un centro commerciale. Mangiammo e ci disponemmo ad attendere segnali dalla bambina. Era un peccato non parlare ancora bene il tedesco, avrei voluto chiedere tante cose su quel mistero. L'ostetrica si prendeva cura di me totalmente, come se fossi importante. Di fatto, attraverso di me passava una nuova vita che aveva diritto al benessere, ad una buona accoglienza. Perché ogni bambino felice, rende più felice il mondo. Katrin di tanto in tanto mi massaggiava il pancione con un olio alla cannella, sostanza che stimola le contrazioni. Sentivo di essere nelle mani di una donna che era piena d'amore e di rispetto per quello che succedeva attraverso di me.
Le contrazioni giunsero a sera. Eravamo tutti stanchi di attendere. Katrin cominciò le vocalizzazioni. Ogni volta che una fitta mi attraversava schiena e ventre, lei si alzava dalla sedia a dondolo e mi veniva vicina per lanciarmi una vocale aperta, la o o la a, con la quale mi aiutava a sintonizzarmi sull'intensità della spinta. Mi propose anche di andare in vasca: per un po' mi fece bene, in acqua sopportavo meglio le contrazioni. Ma mi sentivo impedita nei movimenti, così uscii e mi rimisi a letto, dove, su suo invito, cambiavo continuamente la posizione: a quattro zampe, in ginocchio con mio marito che mi teneva le braccia dietro, o come meglio mi sentivo. Intanto continuavano le emissioni vocali, e lei era sempre lì, amorevole e paziente. Era ormai notte: arrivarono le ultime contrazioni fulminanti, quelle che dilatano, spaccano il bacino. Nell'ultima ora di travaglio giunse un'altra ostetrica, silenziosa, ad assistere Katrin. E così, fra vocalizzazioni e con un ultimo grido lunghissimo, alle due di notte, è nata mia figlia, bella come una rosellina, senza una rughetta, in pace con il mondo. Katrin me l'ha appoggiata subito al seno, entrambe eravamo nude, lei era avvolta nel mio muco, nei miei liquidi, era anche sporca di sangue e come molle, piccolissima, e io per la prima volta ho sentito quell'odore, quell'odore indescrivibile di ventre e di placenta, di bozzolo di neonato. Non ho perso neppure per un istante di vista mia figlia. Mio marito ha tagliato il cordone ombelicale (secondo il parto dolce il neonato può rimanere attaccato al cordone per qualche minuto dopo la nascita, per abituarsi lentamente al passaggio alla vita extrauterina, ma ho sangue di gruppo Rh negativo, e perché non si mischiasse al suo, positivo, io e la piccola abbiamo dovuto dividerci subito). Ricordo che mi è stata richiesta un'ultima terribile spinta per estromettere la placenta: l'ostetrica l'ha raccolta e conservata in un sacchetto. Quindi ha misurato in modo rapidissimo peso (con una bilancia a mano d'altri tempi) e lunghezza per compilare il certificato di nascita, e mi ha restituita la bambina al seno. Si è allontanata un attimo per prendere una vaschetta di acqua tiepida che ha deposto sul letto, invitando il padre a fare alla piccola il primo bagnetto. Quindi l'abbiamo vestita di cotone bianco. A questo punto Katrin ha sistemato della frutta fresca sul comodino e ci ha lasciati soli. Ha chiuso la porta dicendo: Riposatevi con la vostra bambina, vi chiamo fra qualche ora.
La piccola, il nostro tesorino dolce, riposava tranquilla sul lettone in mezzo a noi. Alle sei, quattro ore dopo la nascita, l'ostetrica ci ha chiamati. Ci ha consegnato la placenta in una busta e ci ha abbracciati per lasciarci tornare a casa. Prima dell'alba ero da mio figlio, per presentargli la sorellina.
Il giorno dopo, e per dieci giorni, Katrin è venuta a trovarmi a casa. Mi ha medicato le lacerazioni del parto, ha controllato la bambina e il suo peso, ha conversato con me sull'andamento dell'allattamento, e mi ha insegnato a fare il bagnetto alla piccola nel lavandino, senza sapone né shampoo almeno per il primo mese: solo pura nobilissima acqua tiepida.
Quel giorno io e mio marito siamo andati nel Viktoria Park, abbiamo scelto un boschetto di Eibe, e sotto un tasso dalle bacche rosse, imponente e verdissimo, abbiamo piantato la placenta che ha nutrito la nostra piccola. Così si fa nelle antiche culture. La mia placenta, ricchissima di nutrienti, nutre la terra che prima ha nutrito me, madre.

sabato 18 dicembre 2010

Blogjournal (dalla chiaroveggente)


Da ieri mi sentivo molto giù, brutta e senza gioia. Appena Marion mi ha vista mi ha detto: “Sei sotto pressione”.

Mi sembra incredibile che dall’anno scorso io abbia incontrato la chiaroveggente solo quattro volte, perché i cambiamenti che ha portato in me sono vastissimi, temporalmente li collocherei nella dimensione di anni. Era invece appena il 2008 quando la cameriera della pizzeria mi ha dato il suo numero.

Mi ricordo esattamente cosa mi ha detto la prima volta. Quello che mi chiedo oggi è cosa ha visto Marion di me, di me veramente, quel giorno. Perché certamente lei non può dire tutto subito. E del resto una volta mi ha spiegato che solo man mano che le cose vecchie vengono risolte e messe in ordine si possono vedere le cose future. 

Avevo tantissima voglia di andare da Marion. Non per bisogno o per curiosità, questa volta: per incontrare me stessa. Quando mi sono sdraiata, mi sono accorta che sorridevo: era come se fossi emozionata all'idea di andare incontro alle mie emozioni attuali e al mio futuro. Gli ultimi cinquanta euro sul conto questo mese vanno a lei.

Prima di cominciare la seduta abbiamo chiacchierato a lungo, lei sul divanetto e io di fronte sulla poltrona. Mi ha offerto come sempre l’acqua e io ad un certo punto ne ho rovesciata un po': mi sono messa a ridere perché vi ho riconosciuto un segno di agitazione, è bello come il nostro corpo perde il controllo, si fa sopraffare. Le ho detto del mio lavoro a scuola, degli alunni che si attaccano alle mie gambe quando lascio l'aula, della relazione matrimoniale sempre più sfilacciata e pesante, del mio fastidio verso Neukölln e le brutture del mio quartiere, della voglia di tornare in Italia. Lei ha detto come sempre: "Schauen wir mal!", guardiamo, e mi ha fatto sdraiare.

Sul lettino ho avuto l’impressione, questa volta, che Marion non vedesse tutto subito, ma che dovesse veramente scavare, togliendo uno strato dopo l’altro. La successione delle sue operazioni era sempre la stessa: ha visto come scorre la sua energia; come è la mia energia da 0 a 10 (era a 4); ha indagato se sono radicata in questa vita; se mi ritengo degna di amore e di una vita felice; se mi godo la vita in ogni istante; se ho credenze distorte sugli uomini o sull'essere donna; se mio padre e mia madre mi "vedono"; se prendo l'energia dagli antenati; se nella famiglia ci sono vittime, carnefici, persone escluse, messe al bando o non riconosciute (si intendono persone che si sono suicidate, o figli illegittimi, o anche precedenti amori, persone tradite, persone amate che non possono entrare a far parte della famiglia); se devo perdonare qualcuno; se devo essere perdonata da qualcuno; se devo ringraziare qualcuno; se qualcuno mi deve ringraziare; se l'energia vitale è alta; se sto sulle mie gambe.
Avevo bassi il radicamento nella vita, la consapevolezza che nella vita tutto è a mia disposizione e la capacità di pensare a me stessa.
Ha passato in rassegna tutti gli organi, dai genitali al cuore sino agli strati dell'aura, e si è fermata al rene sinistro e al fegato, dove c'erano dei blocchi.

Ha dovuto lavorare un po' su mia madre. Ancora non mi "vede". Ha detto che capita, quando il parte è gemellare, che la madre sia pronta ad accettare sono una figlia: allora è come se l'altra non avesse posto in famiglia. Inoltre, io e soprattutto mia sorella maggiore portiamo il carico della sofferenza della linea materna delle antenate (donne che hanno dovuto sposare uomini che non amavano).

Ha visto che la mia energia femminile è a posto, mentre mi manca energia maschile. L’energia femminile è quella della comprensione, della creatività ecc., mentre l’energia maschile è quella fattiva, imprenditoriale, quella che stabilisce i confini e permette di dire no. Mi ha fatto allora visualizzare papà davanti a me, dietro di lui i due nonni maschi, e dietro gli antenati maschi sino all’ottava generazione, e mi ha fatto chiedere loro di darmi l’energia che realizza le cose. Mi ha detto che devo imparare a dire no. Ciò che può sembrare egoismo, a livello energetico è giusto: ognuno deve proteggere la propria energia e ricaricarla, per poterla dare agli altri.

Mi ha programmata (ha detto proprio così) perché io non abbia paura fra una fase e l’altra. Quando lascerò il mio lavoro non temerò per i soldi, né i soldi mi mancheranno. Sono consapevole del fatto che, adesso che Marion mi ha "ripulita" così bene, dopo le prime sedute, possa lavorare molto più liberamente su di me, ha forse accesso al mio livello inconscio e può addirittura programmarmi, anche riguardo ai sentimenti.

Questa volta ha parlato pochissimo di mio marito, mentre l’altra volta ho avuto la sensazione che mi perseguitasse su questo tema. Tanto che le avevo detto: “Perché mi chiedi ancora di lui?”. E lei mi aveva risposto che per far accadere le cose nuove bisogna far ordine in quelle vecchie. Era stato allora che, una volta a casa, avevo trovato la forza di parlare chiaramente con mio marito e di chiedergli la separazione.
Forse per questo durante la seduta di oggi non ha più dovuto parlarmi di lui: quel nodo è sciolto. Ciò che mi aspetta ora è naturalmente difficile e faticoso, ma è già stato avviato a soluzione. Non ho più colpe davanti a mio marito, perché gli ho parlato guardandolo negli occhi. E improvvisamente non provo emozioni negative: il rancore era rivolto verso me stessa perché rimanevo bloccata nella situazione, non avevo la forza di tirarmi fuori di lì. Credevo di non meritarmi un amore migliore.

Questa volta invece Marion ha parlato moltissimo di Roberto. Per "vederlo" mi ha chiesto di nuovo del nostro incontro. Le ho ricordato che era verso giugno. Lui era al parco giochi con i suoi figli e una mia amica: quando l'ho visto mi ha colpita moltissimo. L’ho incontrato poi altre due volte allo stesso modo, casualmente: lui era sempre con i suoi bambini. La quarta volta il destino ha dato un segno chiaro: ero ad un festival di strada, mi è venuta voglia di birra e ho attraversato tutta la piazza per raggiungere il chiosco; lì l'ho incontrato, sulla sua bicicletta: in quel punto aveva perso il cellulare ed era giusto tornato da casa a cercarlo. Era la settimana prima dell’inizio dell’estate e io gli ho proposto una festa al lago fra gente italiana. Così abbiamo cominciato a vederci. Marion mi aveva detto subito che quest'uomo sarebbe stato importante per me.
Questa volta Marion ha voluto vedere lui e sua moglie. L’altra volta mi aveva raccomandato che ognuno facesse il suo: io dovevo mettere in ordine le cose con il mio matrimonio, lui le sue – nessuno può fare un percorso per un altro – senza illudersi di poter cominciare una nuova esistenza prima di aver chiuso i conti aperti, perché questa partirebbe con un notevole carico. Mi ha detto perciò di stare attenta: anche se il suo matrimonio andava a rotoli perché non si parlavano da due anni, formalmente stava ancora in piedi, ed era necessario che io non facessi del male a nessuno, che non offendessi la moglie. “Wer Schuld hat, hat Schulden”: Chi ha colpa, ha debiti. Le colpe infatti bloccano l'energia e i soldi.

Mi sembra incredibile che Marion avesse visto l'arrivo di Roberto mesi prima. "Ti aspetta un uomo amorevole, affidabile, che ha a sua volta 2 figli e che vorrà fare un altro figlio con te: un italiano". Allora - ero completamente disfatta da mio marito, che era scappato con una cantante irlandese e tornato dopo due settimane, che mi vietava di invitare gli amici a casa e persino di cantare in bagno - avevo ribattuto che mi sembrava troppo bello, e lei aveva sottolineato che quando l’energia è alta, si può avere tutto.

Questa volta, scavando molto (sembrava fosse lei stessa curiosa!), ha visto che potrò incontrare ancora un uomo, ma che la sua energia è così alta che io devo lavorare molto per raggiungerlo e permettere l'incontro stesso (immagino allora l'universo in cui siamo immersi come formato da riverberi energetici a cerchi concentrici, come dei gironi: chi è fermo in un girone vive esperienze e relazioni di una certa qualità; per avere di più, per stare meglio, bisogna fare uno scatto, alzarsi di livello). Le ho chiesto se quest’uomo è più vecchio di me – perché io me li cerco sempre “maturi”. Lei mi ha detto di no, ha guardato un po’ meglio: forse sarà addirittura uno o due anni più giovane. Ha commentato in modo oscuro: "Le imperatrici hanno bisogno di uomini giovani, pieni di forze". Mi ha detto che è bilingue (svizzero-italiano o italo-tedesco), bello, con molte donne attorno, e che io proverò gelosia, ma che in nessun modo dovrò avere paura, lui mi amerà molto. Non so, non sono ancora pronta a credere che esistano uomini affidabili. Ma anche questa è una falsa convinzione che può bloccare l'incontro.
Io e lui, ha detto, vivremo insieme in Italia. Mi ha fatto ripetere ad alta voce: "Io torno a casa". Recitando queste parole, si è come sciolto un blocco, e insieme ho sentito una tensione molto forte in gola, come se un punto altamente infiammabile fosse stato acceso.

Tutto questo però fra due anni. E nel frattempo non devo fare errori con altri uomini. Mi ha anche detto che tutto dipenderà da me. Può darsi che Roberto trovi la forza di separarsi dalla moglie e che pure lui torni in Italia. Guardando nel vuoto (vorrei sapere cosa visualizza), ha anche visto che nei prossimi mesi si avvicinerà un vecchio amico. Un uomo interessante, ma non facile. Avrà lui stesso delle cose da risolvere, carichi del passato. Non è un uomo abbastanza maturo, anche lui deve superare delle prove. In particolare con lui avrei difficoltà a conciliare l'amore e i bambini, perché è un tipo che vuole completa attenzione. Lui però sarà molto importante per prendere nuova energia e sentirmi bene in Italia. Toccherà a me ad un certo punto scegliere l'uomo che voglio. Scegliere fra tre.

Le ho chiesto perché mi sento attratta dagli uomini tedeschi, perché il loro modo di porsi mi affascina così tanto. Lei mi ha detto che gli uomini tedeschi si mostrano forti, ma è tutta apparenza: non hanno un'energia sana, a causa della guerra che ha distrutto le energie dei loro padri e nonni, i quali non hanno potuto trasmettere vitalità alle generazioni che sono seguite. Insomma, per me vede proprio un italiano! Mi ha detto di aspettarmi che molti uomini si avvicineranno a me: dovrò saper dire di no per non farmi tirare giù dalle basse energie. Infatti, mi ha spiegato, con il rapporto sessuale si assume su di sé il campo energetico dell'altra persona. Poi mi ha messo una mano sul capo e mi ha consigliato di prendere precauzioni se andrò con un uomo. Mi ha detto che vede la luce di un bambino, se non sto attenta arriverà. È il terzo figlio a cui sono energeticamente destinata. 

Le ho chiesto per il mio lavoro se valga la pena fare una formazione Montessori. Lei mi ha detto di no: forse però una specializzazione nei problemi di apprendimento, e sui bambini super-dotati. Mentre diceva questo, un brivido intensissimo mi ha attraversato la nuca: le ho detto che ero meravigliata che tirasse fuori questi temi, perché sono proprio quelli di cui vorrei occuparmi. Lei mi ha risposto con sicurezza che diventerò specialista in queste cose, soprattutto di bambini super-dotati, fra qualche anno, e soprattutto che fonderò un nuovo modello di scuola.

Si è fermata qualche secondo con la sua mano appoggiata in un punto del mio corpo, guardando nel futuro in non so quale modo o forma, e poi mi ha detto, placida: "Tu sarai un nuovo tipo di insegnante. Verrà un tempo in cui le scuole saranno diverse, i bambini impareranno a meditare in classe, a curare la loro energia, faranno yoga; la scuola sarà orientata per materie: i bambini che saranno portati per la tecnica studieranno più quelle materie, e lasceranno da parte l’ortografia. Una scuola così ancora non c’è e va fondata. Al momento giusto conoscerai delle persone che, un po’ di là e un po’ di qua, ti daranno informazioni che ti aiuteranno a farlo. La nuova scuola avrà bisogno di insegnanti spiritualmente superiori".

In quel momento tutto ha acquisito senso, ho avuto voglia di andare avanti, di diventare una persona migliore. Io corrispondevo pienamente a quel futuro. Ho chiesto a Marion: "Dove posso imparare queste cose? Io non ce la faccio più ad insegnare in una scuola normale!", e lei mi ha risposto che i bambini adesso hanno lo stesso sapere degli scienziati antichi, e che io sento che hanno bisogno di una scuola diversa. Mi ha ripetuto che però i nuovi metodi non si possono imparare da nessuno, perché questa scuola ancora non esiste. Si metteranno insieme alcune persone a fondarla.

Infine ha guardato i miei figli. Stanno bene, ma il grande soffre per il padre. Inoltre, qualcosa lo spaventa all’asilo: forse alcuni compagni lo maltrattano. Ricordo che durante la prima seduta avevo confessato a Marion di avere brutti presentimenti su mio figlio: era come se mi aspettassi un incidente. Lei mi aveva spiegato che in realtà io avvertivo l’energia negativa del padre che si scaricava su mio figlio, e che il bambino faceva da specchio per il padre. Temevo per mio figlio, ma non era un incidente o una morte prematura ciò che dovevo aspettarmi. Mi aveva spiegato: “I bambini riflettono l’energia dei genitori. Quando per esempio un bambino è violento con il fratellino, in realtà esprime la delusione dei genitori che si aspettavano una femmina e non riconoscono il secondogenito maschio”.

Quando mi sono alzata dal lettino mi sentivo emozionata, come investita di un nuovo senso, e come al solito pesantissima: i carichi smossi, le energie liberate davano sempre la sensazione di un'impalcatura caduta in testa. Gli effetti della terapia duravano almeno due-tre giorni. La prima volta avevo continuato a piangere la notte: era stato come se una vecchia me fosse morta. 

Sempre più sento Marion amica. L’ultima volta durante la seduta mi aveva rivelato qualcosa di sé, circa dei soldi che erano arrivati come dal cielo, un'eredità inaspettata. Allora avevo avuto il coraggio di chiederle "com'è che fa". Con molta intensità mi aveva raccontato che lei è un medico e che è stata una specie di prodigio: laureatasi e specializzatasi mentre metteva al mondo tre figlie, con grande forza di volontà, aveva avviato uno studio privato con cui guadagnava benissimo. Poi un giorno aveva scoperto di soffrire di un brutto male agli occhi. Tentando tutte le vie per guarire, era ricorsa anche a cure alternative. In quel periodo aveva cominciato ad avere allucinazioni: a contatto con una persona aggressiva, ad esempio, visualizzava una testa di lupo. Credeva di essere vicina alla follia, invece si manifestavano delle capacità insospettate.  
Questa volta invece mi ha parlato dell'amore. Mi ha detto: “Il mio uomo è sempre più vicino, s’approssima: l'anno prossimo arriveranno cosa buone per me”. Mi ha fatto effetto che anche lei sia soggetta ad attese e misteri, come tutti noi.

Io e Marion ci siamo come al solito salutate con un abbraccio. Ero sulla porta e lei mi ha guardata. Ha disegnato con le mani nell'aria la mia silouhette e ha detto: "Ora sei bella".

domenica 12 dicembre 2010

La mia Berlino - Blogjournal (Nord)

Io non getto via nessuno. Prima di farlo mi devono condurre allo strazio.
Così è stato. Aspettare, sopportare, salvarlo. Ma ora qualcuno si è accorto di me. Mi portano in campagna. Vieni, ci pensiamo noi.
Il sollievo. Due anni sono lunghi, faticosi, eppure avrei sopportato ancora. Le sue fughe improvvise, le visite all’ospedale psichiatrico, il lavoro, mantenere il sorriso. Tutti meritano amore.
Ora che il matrimonio era finito, non sopportavo più la mia vita a Berlino. All’inizio era stata un’avventura voluta. Avevo vissuto a Lille, in Svizzera, a Londra e avevo sognato di pescare gamberetti alle isole Svalbard. La Germania andava bene per cominciare a capire il nord. Ma ogni Nord è diverso, non esiste un freddo uguale all’altro.
Il freddo di Berlino era dentro di me, sempre. Era una percezione di lontananza. Il freddo è infatti la lontananza da una fonte di calore, è una questione di metri e centimetri. Cosa accomunava me e quel conducente d’autobus di malumore? Nulla. Ripensavo agli autisti romani con la loro parlata infuocata, ai genovesi con le finali trascinate in basso, ai pugliesi che invece di lasciarmi alla fermata mi accompagnavano sino a casa.
Sul Kottbusserdamm, nel mio quartiere, negli ultimi mesi era stato un proliferare di parrucchieri musulmani, con la saletta in fondo dove le donne velate potevano scoprire il capo. Chiudevano le librerie e i piccoli negozi e aprivano – ancora, sempre, come un’epidemia – esercizi per le scommesse sportive, distributori di döner, negozi tutto-a-un-euro. La caduta, la caduta verso il basso, che non era espressione d’un popolare sgargiante e sanguigno, ma di una ghettizzazione, una condanna all’odore di plastica scadente, di fritto, allo squallore dei negozi sporchi, business tirati su senz’arte – era facile in Germania aprire esercizi. Tutto attorno lo stesso grigio, a ogni metro un Edeka, uno Schlecker, le stesse catene di negozi ovunque, le cassiere del Karstad, corpulente, con i capelli bicolore e i camicioni squadrati. Quando non ne potevo più mi infilavo a sguardo basso nella linea 8 della metropolitana, già piena di aliti alcolici, uscivo nella Weinmeisterstrasse, percorrevo la Sophienstrasse, costeggiavo il piccolo cimitero, la fabbrica di mattoni rossi convertita in teatro sperimentale, passavo a vedere le locandine dei film agli Hackeschen Höfe, m’infilavo quindi sotto il ponte della S-Bahn, sbucavo sulla riva della Sprea, dove col bel tempo sistemavano le sedie a sdraio, risalivo la sponda in direzione dell’isola dei musei, stavo sotto l’Alte Museum, raggiungevo il Boden, mi lasciavo cadere sull’erba e presso quei giganti di vedetta sull’isola riposavo, riposavo, nella Berlino che mi consolava.
Dopo un’ora tornavo nel quartiere, entravo nell’Edeka sotto casa e uscivo rapidamente con quattro cose in mano, come facevano tutti lì aborrendo i carrelli. Le quattro cose erano sempre le stesse, generi di sopravvivenza che sapevano tutti indistintamente di prodotto industriale plastificato. Se era venerdì facevo poi due passi verso il canale e al mercato compravo formaggi francesi, verdure biologiche, ravioli al radicchio. Così rinfrancata me ne stavo ancora qualche minuto seduta sull’argine con un caffè allungato in un bicchiere di carta mentre cigni e battelli scorrevano affianco e giovani artisti facevano atmosfera country con le chitarre.
Pensavo a questo popolo professionista nel creare atmosfera, nel riprodurre i rituali della “Gemütlichkeit” – apparecchiando le tavole con candele e panini alle noci o ai semi di girasole, con la caraffa di caffè sempre presente, nelle scuole e negli uffici, e i copioni delle feste a garantire un’idea di armonia. A confronto le riunioni italiane non avevano gusto, le feste di compleanno erano spesso grottesche, da noi, nude.
Più di tutte mi piacevano le atmosfere di San Martino: i bambini sfilavano al buio sugli ampi marciapiedi scaldando il freddo di novembre con canti e candele portate nelle lanterne di carta. “Laterne, Laterne, Sonne, Mond und Sterne!” Erano belli quei canti nordici lontanissimi da me.
C’erano momenti in cui ero felice? Sì, sì. La mattina prima delle sette sulla linea 1 della metropolitana sopraelevata, nella luce chiusa dalle nuvole, ogni tanto in quell’ora scorgevo un pallido rosa dietro le sagome di Potsdamerplatz, dietro le guglie delle chiese protestanti; se il sole passava attraverso quel grande cielo era come una lama, come metallo sulle auto sottostanti. E sui parchi, sulle serpentine d’acqua nei canali, sui battelli e sui teatri, su Alexanderplatz vuota e brutta, sui treni rossi e bianchi, sui palazzi socialisti, sui cantieri vecchi e nuovi e su tutta quell’immensa Berlino che si muoveva e avanzava piena di muri invisibili e di forze nuove decise ad abbatterli.

La mia Berlino - Blognovel (1a pagina)

Dalla grande finestra della ex-fabbrica di cioccolata, Sara Cena guardava i fiocchi di neve posarsi sull'acero spoglio: uno dopo l'altro, geometrici e iper-bianchi, si fermavano sui camini, sui sellini, sugli otto diversi contenitori della differenziata. Berlino non era mai stata così lenta. A meno quindici sotto zero, sembrava che il sangue della città, i binari e i volti dei berlinesi si fossero gelati. Da giorni la S-Bahn circolava irregolarmente; qualche avventuroso si ostinava in bicicletta, altri riempivano l'auto dell'unico collega che ne possedeva una. Tutto sommato era una fortuna essere stata licenziata (la sua azienda era una di quelle dislocate in Irlanda): disponeva di quattordici mesi a stipendio ridotto per mettere in piedi un'altra esistenza. Aveva cominciato quella settimana con le visite guidate per le scolaresche, ma la sua idea era di aprire un locale di cucina alternativa. Nella grande stanza, altissima, si era diffuso un pungente aroma di tè alla rosa. Fra qualche minuto sarebbe arrivato Volkmar, il giornalista che occupava la stanza oltre il corridoio a elle; avrebbero preso il tè assieme - a quell'ora lui rientrava sempre con i croissant alla mandorla - e commentato la politica dei verdi o l'ultima uscita del sindaco Wowereit. Ancora poteva godersi la fabbrica ferma, senza voci.
Berlino era silenziosissima.

"ABC, die Katze lief im Schnee!". Le bambine cantavano in cerchio sotto un cielo viola. Nelle loro tutine imbottite, si godevano la neve e l'aria siberiana nel cortiletto della Tagesmutter. Sara caricò le piccole sulla slitta e le trainò attraverso l'Hasenheide: il parco era ancora immacolato, ma già pieno di spacciatori appostati sotto i tassi.
Ripassò mentalmente gli impegni della giornata. Toccava a lei fare la spesa al Biomarkt e preparare la cena. Ma prima doveva accompagnare le bambine a casa. Si ricordò che alle sei aveva appuntamento con la chiaroveggente e le venne da sorridere al pensiero. La cameriera della pizzeria Sorrento le aveva fissato l'incontro: "Non puoi immaginare cosa riesce a vedere!". Dopo sei anni a Berlino, cominciava a sentirsi male: il futuro non andava oltre il momento di spegnere la luce a fine giornata, finiva con la scadenza della Monatskarte. Un giorno era scesa al capolinea della U1 e invece di andare a bere qualcosa nella Rivalerstrasse era rimasta sul ponte sopra la Sprea a guardare i battelli passare. Era il punto di Berlino che più le piaceva, ma lei stava ferma come dentro una cartolina, il fiume non le apparteneva, non la chiamava. Su quel ponte fra due quartieri, fra due sponde, fra binari d'acqua e di ferro, così prossimo alla East side gallery, così aperto al cielo, aveva capito che niente di Berlino la commuoveva.
Le bambine scesero dalla slitta per portare i loro peperoni crudi all'asino. La fattoria degli animali era stata aperta due mesi prima. C'erano un lama, dei pavoni, quattro pecore. Poco oltre il parco, la Berlino multi-kulti, i parrucchieri turchi, il Lidl con le cassiere sottopagate e il Karstadt con le commesse dalle unghie finte a forma di dattero di mare. Strati di vita uno sull'altro.
Cosa le avrebbe detto la chiaroveggente? Aveva paura di una deriva esoterica. L'anno prima si era sfiancata con lo yoga e aveva esagerato con la meditazione; aveva praticato il digiuno settimanale; eliminato la carne dalla dieta. E poi aveva capito che tutto quell'occuparsi di sé era il segno d'un amore a due posti con il secondo sedile da troppo tempo libero.

giovedì 9 dicembre 2010

Intervista a Deborah Pezzuto, New York

DA TRE METRI SOPRA IL CIELO
di Cinzia Colazzo

Deborah, hai più o meno 140 caratteri per dirci qualcosa di te.
- Sono italiana, nata a Brindisi; vivo a New York da tre anni. Mi sono sposata qui a NY e ho una bellissima bambina. Sono una persona solare, pragmatica e diretta. Amo la vita e amo circondarmi di amici di qualunque origine. Sono una persona senza pregiudizi e non amo il pettegolezzo. Amo vivere in città enormi.

Raccontaci i tuoi primi mesi all’estero.
- Durissimi. Lontana dalle mie sicurezze e immersa in una città enorme dove tutti sembravano veloci e indifferenti. Mi mancavano gli amici e la famiglia. Ho sempre vissuto lontano dalla mia famiglia essendo nata al sud e stata in tre città del nord, ma cambiare paese è una cosa diversa. Tutto mi sembrava lontano e ostile. Abbiamo fatto un corso di Interculture dove ci è stato detto che è dimostrato: il primo periodo che vivi all’estero ti sembra difficile, ma poi cambia tutto. Dopo sei mesi andava meglio con la lingua e avevo già iniziato ad avere delle amicizie. Dopo un anno ero già innamorata di NY.

Com’era Deborah prima di emigrare? Più spensierata, più immatura, più italiana?
- Più italiana e meno possibilista. Vivere all’estero ti pone di fronte a mille situazioni nuove e inaspettate e di fronte alla possibilità di crescere. Sono sempre stata una persona molto matura e dotata di buon senso, ma quando sono arrivata a NY è cambiata la mia visione della vita e questo mi ha fatto diventare ancora più forte. Certamente prima di emigrare ero meno sicura di me.

Riconosci un vizio e una virtù che ti porti dietro dall’Italia…
- Come virtù sicuramente l’allegria tipica degli Italiani intesa come capacità di sdrammatizzare. Come vizio  - ma ora grazie a questo Paese sono riuscita a superarlo - il fatto di pensare che alcune cose fossero impossibili da realizzare. Qui si pensa sempre che i sogni si possano realizzare, mentre in Italia ti insegnano a non illuderti: e così cambiano poche cose.

Qual è la virtù dei forti?
- Sicurezza in se stessi. Ambizione positiva e giusta. Determinazione e curiosità per il diverso.

Che libri leggevi da bambina?
- Libri di favole e fantasia. Mia madre voleva che mi si sviluppasse la parte sinistra del cervello e così mi riempiva di libri di favole e arte.

La bambina che eri ha realizzato i suoi sogni?
- Assolutamente sì. Sono sposata con una persona bellissima. Ho una bambina che amo più di ogni altra cosa. Vivo nella città dei miei sogni e ho vicino amici che adoro.

Che lavoro fai attualmente?
- Freelance come Advertising Media Director a NY.

Qual è il peggior difetto di New York?
- Rumorosa.

Qual è il peggior male dell’Italia?
- Basso tasso di natalità. Paese troppo anziano e quindi statico.

Quali sono i problemi sociali più evidenti a New York?

- Sicuramente la mancanza di lavoro per molte persone in questo momento. E poi ci sono tante donne messicane giovani con molti figli e senza lavoro o con lavori umili. Infatti molte adozioni sono di bambini messicani.


Quanti italiani ci sono nella tua comunità di amici?
- Tre che vivono qui da trent’anni. Sono poco italiani!

Racconta l’angolo che più ami di New York, il tuo locale preferito, cosa vedi dalla tua finestra.

- Bryant Park durante la primavera pieno di fiori e di persone che si sdraiano sul prato circondati da grattacieli e tutt’attorno il profumo dell’erba.
- Un locale nell’east village dove si fondono culture musicali e gastronomiche diversissime.
- Vedo grattacieli e vedo il colore azzurro del cielo di una città piena di luce sebbene tutto si sviluppi in altezza.

 
top of the rock - dimmi se qui non si sogna
  

Cosa guardi in TV?
- Non la guardo.

Cosa esporteresti dagli USA nel mondo (da prodotti a idee)?
- Dagli USA esporterei i servizi. Qui si può fare tutto. Tutto è possibile e c’è sicuramente un servizio per te: da day care a dog sitter a qualunque ora, a albergo per riposarsi solo 30 minuti, a food delivery 24 hours, matrimonio veloce e non costoso, personal trainer a tutte le ore, palestre nei building e così via.

E qualcosa di tipicamente americano?
- Hamburger! Non quello di McDonald’s ma quello vero americano. Buonissimo.

Leggo su un magazine: “Solo negli USA un esame per l’immigrazione a un italiano lo fa un cinese”. Diresti che è questa la peculiarità della società in cui vivi?
- Sì, qui tutti sono uguali.

Tu come hai ottenuto la Green card?
- Ho un Visa per lavoro.

Qual è la più grande menzogna sugli USA? E il più falso cliché su NY?
- Che non capiscono nulla di cucina. Again che è una città dove si mangia male ma non è vero.

Quando hai voglia di qualcosa di speciale, cosa fai o mangi o come festeggi a NY?
- Cupcake.

Cosa ti ha portato il 2010?
- La mia bambina bellissima.

Cosa speri per il 2011?
- Che migliori la situazione economica.

Dai un colore ai tuoi prossimi 10 anni.
- Blu.

Cosa pensi dell’amore?
- Che è il motore della vita.

Qual è la domanda che un intervistatore dovrebbe assolutamente farti?
- Perché hai deciso di lasciare il tuo paese di origine.
Allora te la faccio! Cosa mi rispondi?
- Perché volevo avere la possibilità di sognare. Volevo realizzare i miei sogni. Abbiamo avuto la possibilità di trasferirci qui per lavoro e l’abbiamo colta al volo. L’America è ancora il paese che si immagina. Quello dove puoi realizzare i sogni. Dove la gente lavora ma sempre in modo positivo e costruttivo. NY è piena di giovani, la città pulsa e dà energia. L’Italia sta attraversando un periodo passivo e privo di energia. Non amo le discriminazioni e a NY si vive senza differenze.

In quale film vorresti vivere?
- “Nuovo cinema paradiso” (Tornatore) e “Alla ricerca della felicità” (Gabriele Muccino). Mix di culture.

Cosa pensi quando ti svegli?
- Alle cose che devo fare. Ho sempre energia.

Cosa pensi del tuo corpo?
- Snello. Semplice.

Qual è l’ultimo acquisto folle che hai fatto?
- Poncho di uno stilista emergente americano.

Pensi di essere fortunata?
- Penso che non esista la fortuna ma che sia normale avere dei momenti difficili e imparare a superarli.

Molti giovani italiani considerano New York un mito. Come si fa ad arrivarci? Quali settori offrono la possibilità di inserirsi velocemente e di ottenere un Visa?
- In questo momento è difficile. Si deve partire già dall’Italia con un VISA e quindi con un’azienda che ti mandi qui. Conosco però molti medici che sono venuti a fare la specializzazione e poi sono entrati negli ospedali americani. Un’altra idea è venire qui ad aprire qualcosa di tipico.

È passata una stella cadente: esprimi un desiderio ad alta voce!
- Pensato ma se è un desiderio, non posso dirlo a nessuno!

Grazie Deborah.
- Complimenti a te, mi sono divertita a dare le risposte, e poi mi hai dato la possibilità di riflettere su alcune cose.