domenica 12 dicembre 2010

La mia Berlino - Blogjournal (Nord)

Io non getto via nessuno. Prima di farlo mi devono condurre allo strazio.
Così è stato. Aspettare, sopportare, salvarlo. Ma ora qualcuno si è accorto di me. Mi portano in campagna. Vieni, ci pensiamo noi.
Il sollievo. Due anni sono lunghi, faticosi, eppure avrei sopportato ancora. Le sue fughe improvvise, le visite all’ospedale psichiatrico, il lavoro, mantenere il sorriso. Tutti meritano amore.
Ora che il matrimonio era finito, non sopportavo più la mia vita a Berlino. All’inizio era stata un’avventura voluta. Avevo vissuto a Lille, in Svizzera, a Londra e avevo sognato di pescare gamberetti alle isole Svalbard. La Germania andava bene per cominciare a capire il nord. Ma ogni Nord è diverso, non esiste un freddo uguale all’altro.
Il freddo di Berlino era dentro di me, sempre. Era una percezione di lontananza. Il freddo è infatti la lontananza da una fonte di calore, è una questione di metri e centimetri. Cosa accomunava me e quel conducente d’autobus di malumore? Nulla. Ripensavo agli autisti romani con la loro parlata infuocata, ai genovesi con le finali trascinate in basso, ai pugliesi che invece di lasciarmi alla fermata mi accompagnavano sino a casa.
Sul Kottbusserdamm, nel mio quartiere, negli ultimi mesi era stato un proliferare di parrucchieri musulmani, con la saletta in fondo dove le donne velate potevano scoprire il capo. Chiudevano le librerie e i piccoli negozi e aprivano – ancora, sempre, come un’epidemia – esercizi per le scommesse sportive, distributori di döner, negozi tutto-a-un-euro. La caduta, la caduta verso il basso, che non era espressione d’un popolare sgargiante e sanguigno, ma di una ghettizzazione, una condanna all’odore di plastica scadente, di fritto, allo squallore dei negozi sporchi, business tirati su senz’arte – era facile in Germania aprire esercizi. Tutto attorno lo stesso grigio, a ogni metro un Edeka, uno Schlecker, le stesse catene di negozi ovunque, le cassiere del Karstad, corpulente, con i capelli bicolore e i camicioni squadrati. Quando non ne potevo più mi infilavo a sguardo basso nella linea 8 della metropolitana, già piena di aliti alcolici, uscivo nella Weinmeisterstrasse, percorrevo la Sophienstrasse, costeggiavo il piccolo cimitero, la fabbrica di mattoni rossi convertita in teatro sperimentale, passavo a vedere le locandine dei film agli Hackeschen Höfe, m’infilavo quindi sotto il ponte della S-Bahn, sbucavo sulla riva della Sprea, dove col bel tempo sistemavano le sedie a sdraio, risalivo la sponda in direzione dell’isola dei musei, stavo sotto l’Alte Museum, raggiungevo il Boden, mi lasciavo cadere sull’erba e presso quei giganti di vedetta sull’isola riposavo, riposavo, nella Berlino che mi consolava.
Dopo un’ora tornavo nel quartiere, entravo nell’Edeka sotto casa e uscivo rapidamente con quattro cose in mano, come facevano tutti lì aborrendo i carrelli. Le quattro cose erano sempre le stesse, generi di sopravvivenza che sapevano tutti indistintamente di prodotto industriale plastificato. Se era venerdì facevo poi due passi verso il canale e al mercato compravo formaggi francesi, verdure biologiche, ravioli al radicchio. Così rinfrancata me ne stavo ancora qualche minuto seduta sull’argine con un caffè allungato in un bicchiere di carta mentre cigni e battelli scorrevano affianco e giovani artisti facevano atmosfera country con le chitarre.
Pensavo a questo popolo professionista nel creare atmosfera, nel riprodurre i rituali della “Gemütlichkeit” – apparecchiando le tavole con candele e panini alle noci o ai semi di girasole, con la caraffa di caffè sempre presente, nelle scuole e negli uffici, e i copioni delle feste a garantire un’idea di armonia. A confronto le riunioni italiane non avevano gusto, le feste di compleanno erano spesso grottesche, da noi, nude.
Più di tutte mi piacevano le atmosfere di San Martino: i bambini sfilavano al buio sugli ampi marciapiedi scaldando il freddo di novembre con canti e candele portate nelle lanterne di carta. “Laterne, Laterne, Sonne, Mond und Sterne!” Erano belli quei canti nordici lontanissimi da me.
C’erano momenti in cui ero felice? Sì, sì. La mattina prima delle sette sulla linea 1 della metropolitana sopraelevata, nella luce chiusa dalle nuvole, ogni tanto in quell’ora scorgevo un pallido rosa dietro le sagome di Potsdamerplatz, dietro le guglie delle chiese protestanti; se il sole passava attraverso quel grande cielo era come una lama, come metallo sulle auto sottostanti. E sui parchi, sulle serpentine d’acqua nei canali, sui battelli e sui teatri, su Alexanderplatz vuota e brutta, sui treni rossi e bianchi, sui palazzi socialisti, sui cantieri vecchi e nuovi e su tutta quell’immensa Berlino che si muoveva e avanzava piena di muri invisibili e di forze nuove decise ad abbatterli.