sabato 25 dicembre 2010

Motel 2512

L'appuntamento era davanti al cinema Roma nell'omonima piazza. L'ho visto nella macchina, ho bussato al finestrino di destra: "Sono ammessi i ritardatari?". "Dipende - ha detto lui -, dipende dalla simpatia".
"Dove andiamo?" - chiedo. "A Natale non so cosa troviamo di aperto - dice -, intanto andiamo".
Sulla provinciale sfiliamo accanto alla coda di macchine dirette al multisala. Noi puntiamo verso Como. I locali hanno le luci spente, sono solo le 5 del pomeriggio, forse apriranno più tardi. Passiamo dal ristorante di un suo amico: "Stiamo chiudendo, ce ne andiamo tutti al cinema, io e gli altri. Facciamo il Natale insieme".
Troviamo solo il bar della stazione di Fino Mornasco, ma sembra triste. Intanto parliamo fitto, dei figli soprattutto, della crisi in Italia: è il primo appuntamento dopo l'incontro al bar. Quella mattina avevo appena portato i bambini a scuola e mi ero fermata a prendere un caffè prima di andare a correre. Indossavo i jeans e un cappellaccio rosso. Col barista si parlava come al solito della Germania, era rientrato due anni prima da Ravensburg e stava pensando di tornarci. Lui ad un certo punto si era intromesso, avevamo cominciato a parlare in tre; poi il barista era stato chiamato per un'ordinazione ed eravamo rimasti in due a commentare la situazione italiana. Prima di andare al lavoro mi aveva lasciato il telefono, io l'avevo salutato e mi ero messa al tavolo per scrivere qualcosa. Dopo mezz'ora avevo chiesto al barista di poter pagare il caffè: "Te lo ha offerto Marco". Gli avevo allora inviato un messaggio di ringraziamento, e così senza pensarci gli avevo fatto avere il mio numero. Da quella mattina però non ci eravamo più sentiti.
Oggi mi ha mandato gli auguri. Era solo con i figli grandi; anch'io ero a casa con i bambini. Ci siamo scritti: "Dai, prendiamo un caffè nel pomeriggio".
Lui è un imprenditore, non si lascia scoraggiare dai bar chiusi. Mi dice: "Andiamo in albergo". Io: "Scusa, non ho capito". "Sì, prendiamo una stanza così abbiamo da sederci e da stare in pace". Non sono riuscita ad oppormi, credo di essere diventata silenziosa per qualche istante. Intanto lui aveva imboccato l'ingresso e aveva fermato la macchina. "Mi serve anche il tuo documento". Torna con la chiave, riavvia il motore e parcheggia la macchina davanti alla porta numero 48. Mi sembra d'aver già visto questo motel, forse nel film "Cosa voglio di più". Scendendo dalla macchina lui dice: "Bello è quando gli altri ci danno fiducia". Io ribatto: "Ancora più bello è quando diamo fiducia a qualcuno che ci delude e nonostante questo continuiamo a fidarci della gente".
Mi dà la chiave, entriamo, fa molto caldo dentro. Si toglie la giacca e si dirige disinvolto verso il frigo-bar. "Prosecco?". E così brindiamo al Natale, nei bicchieri di plastica che non tintinnano, io seduta sul divano bianco, lui di fronte a me sul letto bianco. Accendiamo la tv su un programma musicale per fare un po' d'allegria. Lui dice: "Vedi? Così è perfetto: stiamo in pace, possiamo parlare".
Rimaniamo in quelle posizioni, con il bicchiere in mano e gli occhi mobili per due ore. Gli chiedo del matrimonio finito, lui mi parla dell'instabilità mentale dell'ex moglie, del male che gli ha fatto, del sollievo quando il giudice ha affidato i figli a lui e della promessa che ha fatto ai bambini di non portare nessun'altra donna in casa. "Quella promessa l'ho mantenuta. Ricordo un Natale di cinque anni fa, ero solo, i bambini erano con la madre, i miei amici festeggiavano con le loro famiglie: ho pianto tutta la sera. Ora sono stanco. A 39 anni ho voglia di una donna che sia la mia compagna, che sieda affianco a me in macchina. Sinora non ho trovato nessuna, hanno tutte paura della vita, sono piene di ma, di se. Queste cose le ho dette per la prima volta a te, adesso".
I suoi figli hanno tutto, capi firmati, scarpe di tendenza, frequentano i corsi più esclusivi. Chiedono ed ottengono. Lui teme che stia sbagliando completamente. Che lo abbandoneranno lo stesso, nonostante tutto. "Vorrei mandarli a fare la fame all'estero, qualche volta". Ma poi s'intenerisce di nuovo, parla del biglietto che la figlia gli ha scritto per Natale.
Gli chiedo dell'Italia: "Che sta succedendo?". Lui è imprenditore, dovrebbe saperlo. Mi dice che ci vorranno dieci anni per uscire dalla crisi, che ancora non abbiamo visto il fondo. Che in Italia c'è una contabilità parallela, quella in nero, che regge molte imprese, per cui la caduta non è verticale ma a spirale. Dice che tutti gli imprenditori sono costretti a pagare tangenti per lavorare, per prendere gli appalti, e che quando c'è crisi l'imbuto si restringe, e questo vuol dire che chi vuole lavorare deve pagare più tangenti degli altri ed essere più competitivo, cioè usare materiali più scadenti, pagare meno i dipendenti, i collaboratori. Mi dice: "Ma sai quante case sono fatte di sabbia, di terra? Dopo un anno e mezzo sono già piene di crepe, nei garage si vedono le infiltrazioni".
Mi dice: "Se puoi vai via dall'Italia. Io me ne vado in Australia, appena i miei figli finiscono il liceo".
Si sta bene nel motel, fa caldo. Il canale musicale non passa neppure una canzone accettabile.
Finiamo il mignon di prosecco, apriamo il succo d'ananas. Poi dice: "Ora andiamo". Sono le sette e mezza. Forse deve rientrare per cena. Dai figli.

Siamo stati nel motel a parlare dei matrimoni finiti e delle nostre preoccupazioni di genitori, per brindare a un anno che entrambi desideriamo pieno di avventura, di amore. Un amore però giusto, bello, senza paura. Come una casa con il camino e il bosco appena fuori, o come un motel sempre aperto, 24/7.