martedì 21 dicembre 2010

Il nido di ragni

Girò la chiave e lentamente entrò. Sul divano accanto alla porta stava, quasi sdraiato, il padre in ciabatte. La televisione urlava un qualche commento su un personaggio politico. Dalla cucina veniva odore di minestra. Le dieci del mattino.
Si chiuse in camera e aprì il libro. Dal soffitto si diffondeva la rauca voce della vecchia di sopra che sgridava il marito. Discutevano per ore insultandosi sullo sfondo dei programmi televisivi. Probabilmente erano quasi sordi e il volume nel loro appartamento riusciva ad infiltrarsi come muffa sino a sotto, attraverso quei muri inconsistenti di nuova costruzione che da settembre a maggio restavano freddi. Tutta la provincia era una metastasi di palazzine di finti mattoni con finto marmo e finte inferriate, delimitate da rotonde e accessi alla tangenziale.
Due ore dopo cominciò una trasmissione di cucina, la madre alzò il volume e si sistemò in punta sul divano con un foglietto di carta per appuntare le ricette. La ricciuta conduttrice impostava la voce su toni acutissimi per tenere sveglie le spettatrici e parlava con gaudio delle proprie rotondità, ottima referenza per il libro di cucina che le avevano appena pubblicato. Dalla sua camera poteva udire tutto, ma riusciva a restare concentrata sul libro. Da giorni non mangiava più a tavola con i genitori. Era diventata sensibile ad ogni rumore di deglutizione, al cucchiaio tuffato a colpi rapidi come un remo nella minestra, ai programmi di sottofondo raddoppiati dai commenti frammisti alla masticazione. Quelli di sopra ora spostavano mobili e passavano l'aspirapolvere e intanto inveivano uno contro l'altra in brianzolo.
Era tornata dall'estero per rimanere solo un mese, ma si era subito pentita di quel progetto. Il mese le sarebbe costato caro, si era sentita mordere dalla insofferenza già il primo giorno. Una prova di resistenza alla versione più brutta della provincia italiana.
Alle due si passò a canale 5 per una lunga serie di soap opere. Dalla classica americana alle novità nazionali. Lo schema era sempre quello: mettere in scena le emozioni più basse, dalla gelosia alla paura del tradimento, e le situazioni più temute nelle fantasie delle donne, dalle gravidanze segrete agli stupri, al disfacimento di un matrimonio durato trent'anni. Ma non c'era catarsi: l'intento di ogni soap era quello di far vivere situazioni in maniera vicaria a casalinghe che passavano la vita in casa, di sviluppare dipendenza da quell'immaginario di passioni. Passando dalla camera alla cucina per prendere una mela, vedeva infatti sua madre sul divano con il viso leggermente arrossato e un sorrisino sulle labbra mentre sullo schermo un lui cinquantenne dichiarava il suo amore a lei. Alle due del pomeriggio, si finiva sempre in un letto a consumare un tradimento, e così le casalinghe potevano eccitare il bassoventre e le gambe e tenerli buoni sino all'indomani alle due. Nel far questo, i produttori spingevano le spettatrici verso un livello bassissimo di consapevolezza: le spettatrici, cioè le nostre madri, le educatrici della nuova generazione, le educatrici dei nipoti, le portatrici di valore per le nuovissime leve, dopo aver cucinato e cresciuto figli e arredato case, cambiato lavatrici e servizi di piatti, ora si consolavano con gli amori vicari, mal recitati.

Quello che le faceva più male era vedere il fratello totalmente a proprio agio nella situazione. Pensava agli amici d'Amburgo nelle case alte d'inizio secolo con il legno che scricchiolava sotto ai piedi e le finestre ampie senza tende affacciate su una strada che conduceva al porto dalle grandi navi e al silenzio nei muri, nelle stanze, alla musica radiofonica nella cucina aperta, all'odore di tè e di pane nero biologico. Guardava risentita il fratello immerso nella bruttura dei rumori trascorrere il suo sabato negli outlet e il tardo pomeriggio nella scadente atmosfera mondana degli happy hour. Davvero voleva quello? Davvero era felice così? Aveva più di trent'anni e sembrava che il suo mondo finisse con la tangenziale; due volte all'anno si apriva verso le rotte low cost programmate mesi prima.
A cena il padre talvolta abbassava la tapparella perché i vicini non guardassero in casa. Il telegiornale nazionale parlava delle protesi al seno della moglie di qualcuno. La madre faceva il conto dei soldi spesi in farmacia per il bruciore allo stomaco. Il fratello parlava della coda all'uscita di Cormano.
Lei. Lei era come in un film girato in una lingua sconosciuta, pieno di rumori e di silenzi brutti.

Quello che viveva dentro casa, si amplificava fuori. Di tanto in tanto andava a prendere all'asilo la nipotina, figlia della sorella sposata. Ogni volta veniva aggredita dal rumore di quegli ampi saloni. Per dare forse un'idea di allegria, le maestre mettevano ad alto volume un cd di canzoni per bambini che si diffondeva negli spazi sommandosi ai pianti dei bambini sfiniti e accaldati per la mancanza d'aria fresca, ai drammi delle bambine che non volevano camminare a piedi, ai richiami stizziti dei papà che avevano parcheggiato in seconda fila e alle voci dialettali di talune nonne che strattonavano i bambini per convincerli a muoversi. Nell'insieme un inferno grottesco.
Lei. Lei era come in un film girato in un manicomio da cui avrebbe voluto uscire portandosi dietro la nipotina.

Per fuggire, andava a Milano. Al caffè Mercanti chiacchierava con i camerieri che, seppur impeccabili, già al mattino sembravano non averne voglia. Poi s'infilava nel Palazzo della Ragione dove rimaneva un'ora. Se passava dalla Ricordi comprava una riduzione per voce e pianoforte e solitamente finiva al cinema Anteo.
Neppure quelle boccate d'aria però bastavano. Aprendo la porta di casa, si ritrovava davanti lo stesso scenario: la madre che preparava il tè sbadigliando; la nipotina che batteva su un gioco elettronico; il padre che consultava la pubblicità del supermercato commentando ad alta voce il prezzo del parmigiano. Sul calendario, gli appuntamenti dal medico per i più svariati controlli. In televisione, l'intervista ad una madre che piangeva davanti alle telecamere la scomparsa della figlia. I coniugi di sopra rauchi e astiosi. Dalle finestre le brutte case di piccolo-borghesi bramosi di un giardinetto di proprietà. In camera, suo fratello al computer aspettava che la cena fosse pronta. Lei non mangiò. Entrando in cucina, gettò uno sguardo sulla sala da pranzo: i tre cenavano formando un quadretto desolante, con il quiz davanti agli occhi; la nipotina la seguiva attaccandosi ai suoi jeans. Suo padre e suo fratello parlavano di autostrade e da quella prospettiva sembravano uguali: il collo piegato in avanti, il doppio mento, le mani paffute gesticolanti, lo stesso modo di mettere in fuori il labbro inferiore e di finire le frasi con un tono competente su tutto. La madre provava a dare le risposte al quiz e sbagliava. Ogni tanto esclamava "Sant'Antonio mio!".
Erano meridionali, ma sembravano provare gusto a tentare la cadenza brianzola. Ridevano soddisfatti quando la nipotina diceva "urka" e le insegnavano a ripetere "biutiful, biutiful". Lei, la bambina, batteva le mani. Le importava solo che in virtù della sua grazia le regalassero le scarpine di lelly kelly col tacchetto, il pigiamino di hello kitty e i trucchi di barbie. Finiva tutto il budino e la nonna schioccandole un bacio diceva: "Brava a nonna! Tutto il budino ti sei mangiata!". La bambina era ben contenta delle attenzioni e ben pasciuta.
Le attenzioni erano penetranti. Tutti si occupavano sempre di tutto. Se la madre cucinava, il padre le stava dietro e guardava, occupava lo spazio in cucina. Se lei lavorava al computer, qualcuno le veniva affianco per dirle qualcosa, una qualsiasi inezia. Se la bambina mangiava, la nonna doveva accompagnare ogni boccone con un commento o un "ham!". Mangiare non era mai un fatto privato, discreto, contemplativo. Bisognava sempre mangiare insieme, in pubblico e, mangiando, parlare di cibo. Se non fossero emigrati, se fossero rimasti al sole, se fossero rimasti nelle loro campagne sotto gli ulivi, con il loro pane e le questioni locali di cui occuparsi, non avrebbero avuto più amici, non si sarebbero forse salvati?

Lei studiava canto barocco ma, in quella casa, diventava muta. Esporre il suo canto a quelle pareti, ai vicini di casa, all'incessante vociare della tv sarebbe stato come uscire nuda dalla camera e sedersi a tavola. Non voleva che la vedessero, che la guardassero, che mettessero su di lei le loro attenzioni. Andava nel parco a vocalizzare. Aspettava che piovesse, anche poco: allora non ci sarebbe stato nessuno. Con la pioggia si guardavano bene dal mettere il naso fuori tutti quei vecchi che popolavano quella regione di arricchiti e auto sovrannumerarie. Ma se splendeva il sole uscivano tutti ad intasare le strade, a rallentare gli altri, a riscaldare con gli aliti i negozi.

Lei pensava solo che doveva passare un mese. Passare un mese. Un mese.