Ci recammo al Kunst Café sulla riva destra dell’Elba. La chellerina solerte ci portò della birra scura schiumosa che bevemmo subito. Per cena si andava da sua madre, perciò decidemmo di mangiare qualcosa prima.
Nella sala da pranzo ogni oggetto, ogni
quadro, ogni fonte di luce erano tenuti insieme da una forza
ordinatrice. Le mele rosse e gialle, il grande cesto con le noci, il
candelabro di vecchio argento; sotto l’arco un bassorilievo posato
a terra, testimonianza di altrui rovina, di rapace sottrazione. Non
esiste ricchezza che non abbia avuto origine da una depredazione, per
quanto seppellita nel passaggio di generazioni. La madre sedeva su
più cuscini avvolta in un ampio tessuto. Non si poteva dire che
fosse trascurata, ma la sua persona emanava un senso di misura
stretta. Alla sua destra fumava una grossa zuppiera, alla sinistra attendeva un piatto di formaggi. Era lei a servire la
minestra, due mestoli a testa. Il piatto con i formaggi restava al
suo posto e non sarebbe stato offerto: per ogni cosa bisognava
chiedere. Il patrimonio non era campo di partecipazione, esso si
manteneva e si nutriva con un severo senso della misura. Nessun
materiale nella casa – uno dei tanti immobili di famiglia, spartiti
in fondazioni e in rivoli sotterranei – era meno che pregiato. Ogni
acquisto – un tavolo, un quadro – era anche una forma di investimento, ancoraggio di
capitale. A questa logica avveduta si sottraevano solo i beni
alimentari di uso quotidiano. Non uno di quei beni messi a maturare,
come una certa bottiglia di whisky, o altra rarità che a quel
livello di società si amava scambiare per suggellare un’appartenenza.
Il cibo veniva consumato con prodigalità e acquistato in
supermercati dozzinali. In contrappunto a quella
consistente e solida abbondanza materiale, per la propria sussistenza
valeva l’uso di mantenersi sotto la soglia della sazietà. E così
per i propri ospiti, così per i propri figli, a cui si misurava il
pane. La donna si serviva ora con indifferenza dal piatto dei
formaggi, che rimaneva alla sua sinistra, fuori dell’ambito di
diritto di noi due, che avevamo il piatto fondo vuoto. In pochi
minuti il pranzo fu terminato. Io e lui ci scambiammo rapidi uno sguardo e
io posai la mano sul mio ventre, ammiccando all’oca mangiata nel
Kunst Café.
È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei liberi di cuore.
Dresda, 25 ottobre 2014