giovedì 10 febbraio 2011

Di voi non so dire il nome, né il male, né il bene

Nel suo corpo duro era penetrato un sentimento nuovo, invadente, un profumo sottile, un che di dolce e insensato che lo stordiva; era come se una parte delle cellule si fossero eccitate, ubriacate, come se avessero ricevuto un segnale per un movimento nuovo, circolare, leggero, di danza, quasi avessero deciso di avanzare e progredire in fila per due come scolarette, con un passo doppio come danzatori. Gli veniva improvvisamente da cantare.
Non era forse più giallo il sole? Più verde l'albero spoglio che ricamava la sua finestra? Più gentile la panettiera che gli preparava il solito panino al tonno da portarsi in ufficio? Venne la vecchia donna delle pulizie e lui dovette frenare l'impulso di sollevarla da terra in un girotondo, di abbracciarla e affondare in quel seno matriarcale la sua confessione, dirle ridendo, esplodendo: "Lei mi ama! Lei mi ama!".
E infatti mai avrebbe ammesso che la sua gioia rifletteva un sentimento puro. Perché, si diceva, in fondo ciò che gli mordeva la bocca dello stomaco, ciò che gli trafiggeva con punte infuocate la zona dietro lo sterno, provocando un'accelerazione nel sangue e una rarefazione del respiro, era la soddisfazione di aver vinto.
Le aveva dato appuntamento alle sei alla rimessa degli autobus. Non riusciva a non guardarla, i suoi occhi tornavano a lei di taglio, era come cieco nel campo di destra, solo dall'altra parte, dove lei gli camminava affianco, si concentrava la sua visione; tornava ogni pochi secondi al suo profilo di Madonna, si volgeva alle punte delle sue scarpe, al lembo del suo cappotto, alla sua postura elegante, decisa, alla sua voce fresca, alta, che non cessava di raccontare e proporre, a tutto il suo essere così sorprendentemente femminile: sembrava accorgersi solo in quel momento, come se avesse vissuto per anni in una caverna da orco, nascosto al mondo, che metà dell'universo profumava di vaniglia. La fascinazione che subiva era rovinosa, un bambino in un campo di fiori sarebbe rimasto più sobrio, voleva immergersi in quel nettare, in quel profumo che addolciva il mondo e che lo stordiva. Una donna affianco a lui. Lei. Cati. La sua presenza in quello spoglio deposito degli autobus era come una scia di farfalle eccitate che gli ballavano attorno prendendolo per il naso. Voleva portarle tutte in macchina, chiuderle, frenarle con la cintura. Quando la ebbe sul sedile affianco al suo, sentì un'ebbrezza piena e riposata, vincente. Lei affianco a lui, nell'abitacolo, lei che si faceva portare da lui, dove lui voleva, dove lui decideva, lei e le sue gambe sotto la gonna corta, le sue calze nere, sottilissime, le sue scarpe con la punta, lei e le sue gambe che si accavallavano e si scavallavano, lei e quella voce freschissima, una cascata, lei e i suoi denti bianchi, come neve, marmo di Carrara, sale che brilla sugli scogli, lei e i suoi occhi che non riusciva a guardare, quegli occhi quasi verdi, immensi, profondi, da bambina, come la più dolce delle cagnette, delle gattine, delle scimmiette, e quelle labbra mobili dove sempre si incagliava il suo sguardo, che non poteva smettere di seguire, quasi lo chiamassero ad avvicinarsi, ad entrare negli anfratti più cavernosi, e anche adesso doveva abbassare i suoi occhi arrendevoli su quelle ginocchia appuntite e fasciate di nero, per poi risalire, senza guardarle il seno che si faceva strada oltre il cappotto sbottonato, seguendo la linea della sciarpa verde smeraldo, e ritornare a quella bocca di rosa ma innocente, fanciullesca, sollevare una mano per un fremito improvviso del miocardio e passarle un dito fugace sul labbro inferiore, sentire appena l'umido della poca saliva marina che vi si era posata.
Non si era pentito di quel gesto tenero, del resto poteva esser sembrato molto controllato, molto studiato, una mossa ad effetto. Lei non poteva sapere che gli era sfuggito, che la mano si era sollevata da sola, che il dito aveva anelato a quel breve delicatissimo contatto. Come resistere: la bocca è l'ingresso verso l'anima, le viscere, il deposito degli umori, della saliva, delle lacrime, della lingua che conosce ed esplora, l'atrio per le parole, le risate, i singulti, per il passaggio di nutrimento e di piacere sin dalle prime poppate, di acqua e fiato.
Ora Cati parlava con la sua voce alta e veloce (com'era possibile che si stupisse di sentire note femminili così vicine a lui?), sembrava del tutto a suo agio, consapevole delle sue gambe. Lui tornava a quelle ginocchia e si mostrava concentrato sulla guida, ma dentro gli montava un'ansia nuova che non aveva previsto. In fondo è una menzogna, è da stamattina che sono agitato, sono stato pure a pensare che maglietta mettermi, mi comporto come un adolescente, come se non avessi mai visto una donna, cosa mi prende, non riesco nemmeno a guardarla, ha riempito l'abitacolo di profumo dolce, di colore, che occhi che ha, continua a cambiare la posizione delle gambe, è tranquilla, morbida, così vicina, si aspetta da me che la porti chissà dove, a divertirsi, e non riesco nemmeno a guardarla, si sente sicura qui affianco a me. Ma cosa pensa?, che non le salto addosso? Come posso cominciare a toccarla, a toccarla tutta, così femminile com'è, come faccio a sentire sotto le mie mani tutto quel corpo, quel calore, a incastrarmi nelle sue proporzioni perfette, da dove cominciare, da dove cominciare?
La macchina si fermò ad un semaforo. L'abitacolo restò muto per un tempo lungo, tiratissimo. Cati si girò con una mossa sciolta e coordinata, accentuò la torsione, cercò l'appoggio con la mano sinistra sullo schienale, inclinò il mento, e nell'istante in cui lui si girava per mettere in folle quasi l'operazione richiedesse sforzo, lei gli fermò la bocca con un bacio centratissimo, fenomenale.
E poi disse: "Prévert ha scritto che i semafori sono fatti apposta per potersi baciare".

In lui due impulsi si agitavano, ed entrambi originavano dall'orgoglio. Dopo quel bacio aveva voglia di portarla a fare una passeggiata sul lungomare, offrirle un gelato di circostanza e poi riaccompagnarla alla sua auto lasciandole tutte le pieghe della camicetta esattamente dov'erano, i capelli composti, la bocca fresca di gelato, il cappotto abbottonato: l'avrebbe salutata con distacco, voleva vedere sulla sua bocca un'espressione delusa. Un'altra voce in lui gli diceva che non poteva non rispondere a quel bacio con un'azione adeguata, che le avrebbe fatto vedere chi teneva in mano il gioco: sì, l'avrebbe portata in campagna, dietro il deposito degli autobus, e le avrebbe fatto capire che il suo intento era molto spicciolo.

Mentre lui si chiedeva quale posizione tenere, lei lo aveva sospinto sul lungomare perché niente la riempiva di gioia quanto il riflesso liquido e ondulato della torre sulla baia; tutto le sembrava d'una meravigliosa bellezza, destinata agli uomini sin da tempi mitici. Dopo dieci minuti di passeggiata si era allontanata per entrare in un baretto chiedendogli di aspettarla e ne era uscita con due bicchieri stile Ikea di vino bianco fresco: aveva gli occhi brillanti di una bambina soddisfatta mentre gli porgeva il bicchiere e commentava che vino bianco e mare non potevano stare uno senza l'altro, anche d'inverno.

E così avevano fatto passare le ore parlando fittamente e con allegria del lavoro, degli amici e dei progetti, del loro paese malconcio, dell'estate che sarebbe arrivata. Lui pensò che ormai Cati doveva essere congelata, anche se la voce le rimaneva ferma e brillante. Non aveva voglia di portarla in un locale affollato, non voleva spartirla con nessuno. Temeva che se il quadro fosse cambiato, lui avrebbe perso quel senso di vicinanza, quel calore che veniva da lei e di cui ora beneficiava esclusivamente. Così non gli rimaneva altro che portarla dietro il deposito degli autobus oppure finire la serata.
Fa freddo, ti porto alla macchina, le disse.
Dentro sentì una lama istantanea come se la sera fosse diventata di ghiaccio. Non voleva separarsi da Cati, eppure era quello che aveva appena proposto. Spesso gli capitava di andare incontro volontariamente a ciò che non voleva, di suicidare da solo i suoi veri desideri.
Anche lei perse per un attimo la luce, ma come per esercizio di mitezza sorrise e ammise di aver freddo. La testa le girava un po' per il vino. Posso appoggiarmi a te?, gli chiese mentre gli prendeva il braccio come se fosse un anello da ormeggio.
Lui cominciò a camminare rigidamente, gli risultava di un'intimità mostruosa quel semplice fatto che i loro due passi, così diversi per lunghezza di gamba, ora di accordassero perfettamente, scivolassero lungo la strada buia in mezzo a tutto quello spazio da percorrere senza incepparsi.
Lei ora stava in silenzio, e a lui mancavano gli appigli, mancava la baia, mancava la torre e anche il baretto era lontano, mancava la luce che mantiene lucidi, mancava la scarsa gente del lungomare. E così improvvisamente, come un orologio che in un istante decide di fermarsi perché la batteria si è stancata, lei si bloccò, piantò i piedi parallelamente e tirò leggermente l'anello dell'ormeggio a sé; in un unico movimento impose a quell'anello una lievissima rotazione, e così lui si trovò senza previsioni di fronte a lei, che ora scioglieva l'ormeggio e avvolgeva entrambe le braccia dietro la sua nuca, e si faceva morbidissima, arrendevole, bella come in una fiaba, si alzava sulle punte delle scarpe nere, un po' alte, con una grazia da ballerina, tirando indietro la testa e i capelli castani con gli occhi già chiusi, ora inclinando verso destra la testa e buttando fuori dalle labbra un lieve fiato caldo nell'atto di schiuderle. Così abbandonata, come se lui fosse il principe salito sulla torre, gli chiedeva un bacio, e lui percorse pochi lentissimi millimetri sino a sfiorare la sua pelle profumata, percepire quel fiato caldo femminile, varcare la soglia della sua bocca e depositare nel suo morbido interno tutta la tenerezza, la dolcezza, l'intimità, di cui era capace.

Quando la guardò di nuovo negli occhi, questa volta senza timore, capì tacendo che di quella donna che stava stringendo forte, di quella donna abbandonata a lui, di quella donna nei cui occhi si stava perdendo, era innamorato.
Le disse, guardandola serio e insieme lieve, come se la rivelazione l'avesse reso libero: "Tesoro mio...".

*

Gina aveva gli occhi annacquati, remissivi. Lui le teneva il muso nel palmo ampio, facendole ciondolare la testa dolcemente. La cagna muggiolava docile, come denunciando l'immeritatezza di quel contatto benevolo.
Ogni volta che lui si fermava a dormire da Cati, la cagna mostrava sospirando un rassegnato disappunto: la tenevano fuori della camera da letto, e la mattina se ne andavano festosi senza di lei. Bastava però che lui facesse quel gesto, trattenendo la tristezza canina nel palmo della mano, quell'atto di confidenza e consolazione, perché la cagna tornasse ad accettare il suo posto nella casa.
Sebbene lui mostrasse con la postura una presenza rigida, severa, aveva per la Gina di Cati una certa comprensione, quasi una tenerezza. Il sentimento che le riconosceva aveva la stessa qualità del rispetto implicito che lega un fattore alla cagna: l'uomo la cerca ogni mattina per fare il giro della proprietà, e la bestia gli dà cuccioli che saranno venduti e una fedeltà sottomessa, in cambio della tiepida sosta accanto al braciere, la sera, quasi sui piedi del padrone, prima di essere rispedita fuori.

Non era semplice vedersi. Abitavano a duecento chilometri di distanza. Lei lo chiamava ogni giorno prima dell'ora di cena. Cosa stai preparando?, dove mangi oggi?, gli chiedeva, variando di poco le domande. Lui rispondeva docilmente, sentendo che a lei importava veramente sapere qualcosa di lui, consigliarlo su piccole questioni, partecipare a distanza alla scelta dell'insalata. Certo, non l'avrebbe mai chiamata dal supermercato per chiederle come si prepara la salsa rosa, e lei non era quel genere di donna, anche se avrebbe sicuramente conosciuto la risposta. Però anche lui, forse per non sembrare troppo ostile più che per reciproco piacere, cercava un modo per tirarla dentro la sua vita, dentro il quartiere che percorreva, nei negozi che frequentava. La sua esistenza era molto ripetitiva, si vergognava in fondo della curiosità di Cati: preferiva non raccontare, perché rimanesse una qualche supposizione di mistero. Ogni tanto sui tristi muri del quartiere compariva qualche nuova scritta, un grido d'amore o un graffio di rabbia; allora lui fotografava il messaggio e lo inviava alla Cati via telefono, perché ne potessero ridere insieme: "Pallino, perdonami". In fondo, quello che lui raccontava di sé a lei, non era niente di personale, erano frammenti di storie d'amore altrui, di vendette o pentimenti a cui non partecipava.

Un giorno lui ebbe un pensiero fermissimo in testa, sin dal mattino, un'idea lucida e fredda come un puntale di ghiaccio. Avrebbe lasciato Cati. Dentro di sé ne conosceva la ragione. Durante l'ultima telefonata aveva sentito nella voce di lei una nota meno fresca, un distacco appena percettibile. Ne aveva ricevuto un'impressione sgradevolissima, che aveva acceso nelle sue tempie un allarme immediato. Quella settimana non aveva avuto foto da spedirle, gli innamorati avevano forse cercato altrove muri vergini. E lei doveva aver intuito l'inconsistenza della sua vita, oltre le scritte e le battute su Gina. Era rimasto insonne tutta la notte, e la massa di pensieri aveva scavato in lui una voragine di dispetto che ora l'orgoglio si premurava di colmare. A lui restava comunque il potere di decidere di quella storia, di rifiutare la Cati. Decise che dall'indomani, alle 9 in punto, dopo il veloce scambio di sms del risveglio, lui non l'avrebbe più chiamata, non l'avrebbe più degnata di un segno di vita, sarebbe sparito.
Una parte nascosta, remotissima di lui, gli diceva che quel gioco era un puro bluff: come mostrarsi tris d'assi pur continuando ad essere una cattiva mano.

Dopo quattro giorni, lei aveva smesso di cercarlo. Una tristezza profonda le scavava gli occhi. Mangiava pochissimo e dormiva male. Sapeva che non gli era successo niente: aveva trovato sulle pagine gialle digitali il numero della panetteria da cui lui si riforniva ogni mattina, e con una scusa qualunque era riuscita a scoprire che i suoi passaggi erano stati regolari. Dunque aveva capito bene: a lui non importava più niente di lei, gli era venuta a noia. Cercava nella sua testa le frasi dette che potevano essere state fraintese, le offese involontarie, le allusioni sgradevoli. Non le sembrò però di averlo provocato o soffocato. Solo la Gina si mostrava sollevata, ora che la padrona passava il sabato in casa, parlando con lei da tutte le stanze. Quando però Cati le poggiava la fronte sul dorso singhiozzando a lungo, come se fosse il muro del pianto, le si spezzava il cuore di animale da branco.

Trascorsero così due mesi di vita in parallelo. Non passava giorno in cui lui non pensasse a lei e lei non pensasse a lui. E più si stordivano con risate e impegni nuovi, più grande era la fedeltà con cui si accompagnavano attraverso la giornata.

Un giorno lei si vestì meglio del solito, indossò le scarpe della festa, diede una pacca sul dorso di Gina e disse: "Andiamo, ti porto a fare una passeggiata". La caricò in macchina e la condusse per la campagna umbra diretta a ovest verso il Lazio, guidando spigolosa, e a metà strada tirando giù il finestrino per meglio vedere la prima stella della sera le gridò guerriera, dalla sua postazione al volante: "Ti porto a fare un giretto al mare!".

Solo quando fu davanti al portone, si rese conto che era venerdì sera. Forse lui era uscito con gli amici. Non l'avrebbero trovato in casa e lei e Gina sarebbero rimaste fuori ore e ore ad aspettare. Sembravano inconsolabili, lì dritte davanti al palazzo, con il muso lungo. Cati non riusciva a muoversi. Non sapeva più perché le era venuta quell'idea, cosa aveva pensato di poter risolvere. Non aveva il coraggio di suonare, e restava lì piena di senso di miseria per se stessa. La cosa più sensata da fare le pareva quella di tornarsene in macchina, e attraverso le curve di nuovo a casa, in Umbria, per stramazzare sul letto. Invece si mise improvvisamente, in modo inaspettato anche per lei, a ridere. Si premette le mani sulle tempie come a raccogliere concentrazione, poi con un movimento spavaldo del capo si buttò indietro i capelli, afferrò il guinzaglio della Gina e le disse, come parlando a una sorella: "Non volevi ululare alla luna sul mare? Andiamo". E così si incamminarono in discesa verso il lungomare, entrambe soddisfatte. Perché, in fondo, non era successo niente. Solo l'idea di trovare l'uomo che ancora amava con un'altra donna in casa, le aveva trafitto il cuore con l'acciaio. Per cui ora poteva dire: non è successo proprio niente... Lei e Gina avrebbero fatto una breve passeggiata sino alla torre, e poi sarebbero tornate a casa, nel loro nido sicuro, senza ferite.

Dopo la seconda curva, appena oltrepassata l'insegna del negozio di articoli sportivi, prima della svolta a sinistra per scendere in spiaggia, lei lo vide, e certamente lui vide lei nello stesso istante. Cati strinse forte l'impugnatura del guinzaglio, e procedette. In testa mille possibili risposte si sovrapponevano, perché sicuramente lui le avrebbe chiesto irritato: Che ci fai qui? Avanzarono uno verso l'altra come se le gambe avessero deciso da sole la direzione e non lasciassero spazio a discussioni. Quando lui fu abbastanza vicino, lei si accorse del suo sorriso dolce, degli occhi festosi: era contento. Non chiese niente. Furono vicinissimi in un attimo e si abbracciarono quasi con un gemito, con una commozione struggente, come tornando a casa e trovando tutto al proprio posto, con lo stesso odore di bucato e i fiori in tavola. Baciarsi fu la scoperta di un abisso nero, uno spazio immenso che si allargava nello strettissimo punto di contatto delle bocche, che li risucchiava e li portava dentro il buio primordiale, prima delle amebe e degli organismi unicellulari, nel tempo pre-cosmo dove loro erano senza nome, puro, densissimo, sconfinato amore.

La Gina si agitava attorno a loro e tirava. Era domenica mattina e il bar era pieno dell'odore di brioche fresche. Per la prima volta lui si faceva vedere in giro con lei nel suo quartiere. Si era sempre chiesta come mai questo non fosse avvenuto con maggiore naturalezza. Lei era il tipo di donna che intuisce le motivazioni, ma si ferma prudente ad un certo punto, perché non vuole vedere oltre. Se ne andò presto, con un senso di felicità e insieme di disagio: come se capisse che quelle passeggiate domenicali, con lei e il cane, fossero per lui un sacrificio troppo grande, l'assaggio di una piccola morte, di una noia.

Aveva in mente la precisa immagine di loro due che facevano la spesa insieme riempiendo il carrello di scatole di cibo per cani e di biscotti, i biscotti da mangiare insieme a colazione. La scena le dava un terrore freddo, vi percepiva lui distante, annoiato, con le pupille ostili di chi subiva un torto, come se quella ripetizione gli dovesse venir risparmiata, perché a lui giungesse del rapporto solo un'eco irregolare, intermittente e, soprattutto, lontana.

Fu quindi per un estremo atto di comprensione che, una volta a casa, non lo chiamò più. Riconosceva anche in se stessa il desiderio della pena. In fondo quella tensione estrema le piaceva. Si teneva nel cuore un tesoro grandissimo, un senso di perdita e di struggimento, una mancanza, un'attesa e una volontà di resistere. Lui non smetteva di abitare nella sua testa, nelle gambe, nei vestiti. Preparando la colazione o la cena, d'improvviso lei doveva fermarsi e tenersi il cuore, che sentiva gravido, straripante. Sorrideva allora come una donna che abbia superato una fitta più forte e riconosciuto che è il bambino a muoversi dentro di lei. Così Cati non aveva bisogno di chiamarlo, perché amandolo lo teneva presso di sé.

Passò un mese. Un giorno Cati si guardò allo specchio e si percepì spenta, molto meno bella di quanto si ricordasse. Aveva gli occhi malinconici mentre una voce dentro le tempie interrogava: Cos'è l'amore che non fertilizza il campo?

Cos'è un sentimento senza la realtà che gli dia forma?

Davanti allo specchio, Cati pianse per la propria miseria. Aveva in sé un amore grandissimo, ma quel sentimento la rendeva più debole. In quel momento sentì che mai, mai lui le avrebbe detto: Cati, tu sei la mia donna.

La Cati è una bella, una di valore, le dicevano gli amici. Ora, vestita di nero, sottile come un giunco, non sapeva più. Inabissandosi nelle verità del suo sé svuotato, senza qualità, comprese con uno stacco di nausea che uomo e donna si amano per astrazione, per onore, per educazione, per la possibilità di migliorarsi in una direzione che altrimenti non sarebbe possibile, e che invece il sentimento puro in sé, l'amore in sé accecante, radioso e mortale insieme, è l'illuminazione impietosa su una condizione umana di irrimediabile mancanza.

Lui e lei erano seduti su due rocce sospese nel vuoto dell'universo, con le braccia ad anello attorno alle ginocchia rannicchiate: si guardavano a distanza, senza parlare, come due fratelli tristi che la sorte abbia separato.

*

Aprì il cassetto e infilò la mano tastando il fondo sino all'angolo destro. Ne estrasse un foglietto piegato in quattro. Glielo aveva scritto la sua Cati qualche settimana prima. Lui l'aveva trovato un giorno infilato in un calzino ben piegato nel comodino.
"Tesoro mio, ero una bambina. Mi ostinavo nelle cose belle, perfette. Credevo nei binari dritti. Ora non so più. M'importa solo delle cose semplici; dell'amore. La paura sentimentale mi scava ombre sotto gli occhi. Basta però rivederti e lo sguardo si fa cielo stellato, la bocca fiore; il letto diventa un'altalena: dondola, dondola, da una nuvola, sull'acqua, in un silenzio-mare. Se solo tu mi chiami, si fa splendido il cielo, appaiono nuove lune e comete, e niente più importa. Se solo tu mi ami, svaniscono le distanze e le fatiche, le paure: solo il tuo nome conta."
Il vuoto che percepiva nella sua stanza era micidiale. La Cati non lo voleva più. Aveva avuto forse noia di lui e della sua misura corta nel progettare. Un tempo lei lo chiamava tesoro mio, lo guardava con certi occhi fenomenali, più belli di un lago, più sereni di una sera di bosco, quando a giugno le lucciole fanno festa.

*

Una mattina Cati aprì gli occhi e si sentì guarita. Non avvertiva più quel dolore depositato fra le costole, negli alveoli. Si era arresa.
Si lavò in fretta, si vestì in modo semplice, prese Gina e si mise in macchina. Rifece la strada verso il Tirreno. Ad un incrocio si fermò e comprò dieci mazzi di fiori da un vecchietto scuro che aveva l'ape per negozio.
Arrivò al cimitero di periferia prima di mezzogiorno. Gironzolò per i due piani e si spinse sino all'ala nuova, dove sempre più freddi si facevano i marmi. Individuò nove lapidi dove deporre i fiori. La pietra portava inciso lo stesso cognome del suo amato. Uno almeno fra quegli estinti sarà stato suo antenato, e più sensibile alla pena dell'innamorata che a capo chino portava i fiori. Commossa per il suo stesso sentimento di resa, mormorò nove volte la stessa preghiera: Fa' che lui stia bene e che noi possiamo stare insieme; altro non chiedo.
Il decimo mazzo lo infilò nel contenitore di plastica sopra la tomba quasi centenaria di una giovane donna che si chiamava come lei e che era morta a ventinove anni. Alla foto in bianco e nero di quell'antica, mesta Caterina, non rivolse una preghiera per sé, ma un saluto da una donna malata d'amore a un'altra che un tempo, forse, aveva patito in ugual misura lo stesso male.
Lei e Gina se ne andarono senza neppure passare dal paese. Puntarono senza fretta verso Perugia, dove Cati aveva commissioni da sbrigare. Lungo la strada si fermarono dai Capannoni, che aveva i tavoli fuori: per pochi euro vi si poteva mangiare una minestra accompagnata da vino nero, e alla Gina veniva allungato sempre un osso. L'ultima volta erano lì in tre.

Qualche volta desiderava pensare male di lui. Non l'aveva cercata mai. Com'era stato possibile arrivare a non sentirsi più? Per orgoglio. Era sicura che lui aspettasse un segno della Cati innamorata. A sua volta lei voleva mettere alla prova quell'amore che lui aveva dichiarato. Si chiedeva se l'orgoglio non potesse essere ammansito dal desiderio di stringere la propria donna.
Se ridursi all'ingombrante accidente della vita così com'è, geolocalizzata e casuale, è esistere, lei avrebbe preferito spogliarsi di ogni desiderio e prendere la prima nave in porto. Fuggire dalle sue stesse illusioni. Se i maschi, si diceva, capissero che questa misera messinscena li degrada, e indossassero un nuovo onore, se si buttassero in ogni cunicolo di vita trascinandosi dietro una donna per insegnarle cose nuove, e riceverne grazia! Se lui mi amasse abbastanza da cambiare, diventare migliore!

Triste era quella minestra, e amaro il vino. Risalì in macchina buttandosi come un sacco sul sedile, sistemandosi come se fosse un corpo di vecchio da montare su una barella. Nello specchietto intercettò lo sguardo dolce e buono della Gina, e perse ogni coraggio. "Amica mia, siamo sempre sole, io e te".


"Se solo l'indifferenza copre il male, solo il male spazza l'indifferenza". Non leggeva un libro da tempo, le sue ore libere se ne andavano tutte uguali davanti al computer insieme alle arachidi e al vino. Quel giorno gli era capitato in mano un libro di memorie, e nell'atto di sfogliarlo aveva colto fra tante quella frase.
Decise all'istante di farle male, e cominciò a pensare nei dettagli come, per buttare giù quella dura sordomuta indifferenza che lei gli manifestava da due maledettissimi mesi.

Esistono al mondo infiniti modi per dire l'amore. Mandando messaggi attraverso Radio Londra. Cantando sotto il balcone. Intrecciando margherite in una corona. Incidendo i nomi sulle vecchie cortecce. Tenendo stretto un gomito mentre si sfiatano sul viso decise le parole: "tu stai con me".
Oppure torturando.


Di nuovo la sensazione di essere un corpo vuoto. Portarsi a letto era diventato difficile. Come si fa a spegnere una giornata già spenta? Si teneva a volte i fianchi con le mani fredde per sentire la carne magra sulle ossa. Si metteva una mano sul ventre piatto e passava l'altro palmo sul seno asciutto, privo di fremiti. E finiva con l'intrecciare le braccia sopra le costole, ancorando le dita dietro il collo chino. Il suo corpo stava tutto lì, in quell'abbraccio muto. Quel mucchio di ossa e pelle appena battuto dal passaggio di linfa e sangue era come un regalo scartato e riposto in un angolo, così freddo che infilarlo a letto le faceva pena. Certe volte le veniva voglia di lanciarsi in un'euforia indiscriminata, di cercare i suoi amici, darsi al vino e a carezze casuali, diventare strumento di indagini, di cadute libere. Certe volte metteva la musica a tutto volume e saltava sul letto, per darsi vibrazioni. Nulla però poteva contro l'incantesimo che le era stato fatto. Il suo corpo era di quell'uomo che non la voleva più, e solo lui possedeva la formula magica per riportarla in vita, per gonfiarle il seno, inseminare i fianchi, farle sbocciare boccoli nei capelli e accendere falò di San Lorenzo negli occhi.
Voleva indietro la Cati che brillava al sole, frangendo la luce in ponti-arcobaleno. La voleva per buttarla al collo di quell'uomo e farle scalare così aggrappata tutte le montagne di paura.

Il lunedì successivo fu la giornata più difficile di quei due mesi. L'indomani sarebbe stato il suo compleanno. Comprò una bottiglia di amarone, ma si augurò di non berlo e di scivolare invece in un lungo sonno inconsapevole: sarebbe bastato un bicchiere di vino per bruciare l'involucro di difesa, liberando nell'aria sfiati di tristezza velenosa.


La Gina aveva gli occhi dolcissimi della pena. Il suo corpo duro si era teso ad arco, la coda infilata in mezzo alle zampe quasi chiudeva l'anello col muso chiuso sul petto. La lingua usciva esitante a rassettare i baffi dalla saliva secca e a mendicare un po' d'aria. Lo guardava dal basso e sembrava un maiale pronto all'esecuzione. Lui le assestò un primo calcio sul ventre, non sopportando quella posa contratta. Al primo guaito ne seguì un altro quando lui la percosse con il manico dell'ombrello. La cagna si alzò a metà. Lui le fu di nuovo addosso con un altro calcio sulle mammelle gonfie e poi un altro sul muso. La Gina guaiva penosa, ma non riusciva a reagire, stava sotto le botte come accettando un destino della specie. Più lui fissava quegli occhi annacquati, sottomessi, più diventava furioso. Alzò l'ombrello sopra il capo e lo abbatté sulla bestia con tutte le forze, più volte, sinché non vide uscire il primo sangue, e il corpo percosso e massacrato sollevarsi negli ultimi singulti di vita. Finì con un calcio svogliato sul ventre della bestia esausta, che un poco gli fece scendere giù in petto e smaltire il rossore che gli gonfiava il viso.

Urlando, Cati uscì dall'incubo, atterrita e piena d'angoscia. Si precipitò in cucina a cercare la Gina. Aveva la gola secca e gli occhi dilatati. Nel buio ancora spesso di sonno, un sudore freddo le svuotava le tempie. La trovò nella cuccia, salva nel suo sigillo a ciambella, e scoppiò a piangere.


Era dunque martedì, giorno del suo compleanno. Prese il telefono e lo chiamò. Lui non rispose.
Vide la chiamata e rimase un tempo troppo lungo a pensare se rispondere o no, a calmare il sangue nelle tempie. Aveva ancora questo potere: di decidere di lei, di reggere la distanza e la sofferenza. Se avesse risposto, la storia avrebbe preso un altro corso. Avrebbero fatto l'amore per un giorno intero, tutte le notti sfinendosi. Aveva voglia di Cati, del suo corpo morbido, del suo profumo, della sua risata, dei suoi occhi chiusi persi nell'amore profondo, di Cati su di lui che premeva le anche su quel bacino d'uomo aperto al piacere, di Cati che annullava ogni millimetro di distanza, spingendo l'aderenza a una tensione massima, di Cati che quasi gli faceva male. Avrebbero intrecciato le mani per coordinare il moto ondoso gonfio, pieno, si sarebbero guardati negli occhi come naufragando su una baia lunare, e lui avrebbe sentito una spinta fortissima verso di lei, le avrebbe stretto i seni, le avrebbe tenuto il bacino premuto, avrebbe detto il suo nome mille volte sino a morire in un'esplosione di sangue e ghiaccio sfogata dentro di lei.
Se avesse risposto, lei sarebbe divenuta la sua Cati e lui avrebbe imparato a diventare migliore. Lei gli avrebbe riempito la giornata di fiori, di appuntamenti, di telefonate, di corse con la Gina, di scampagnate, di spese nelle botteghe, di cene cucinate per bene, di visite agli amici, di bigliettini nei calzini, di odore di biscotti, di gelosie improvvise, di prodotti di bellezza nel bagno, di cereali nella dispensa, di musica per la casa, di infinito moto. Lei era una donna capace di dedizione, di amore lieve e dolce, di presenza delicata, capace di amicizia. Se avesse risposto, avrebbe detto di sì a tutto questo, alla paura di perderla, all'angoscia di essere tradito, a una pienezza nuova da reggere. O forse avrebbe potuto rimandare ogni scelta. In fondo la sua vita asciutta gli stava bene addosso.
Fissò il cellulare, se lo rigirò fra le mani. Si sentiva un uomo improvvisamente felice, redento da se stesso, dalla sua stanchezza abissale.
Scrisse: "Ci sono", e inviò.


Il racconto di questa storia finisce qui. Non so andare oltre. Non so dire cosa capitò ai due personaggi, a quali patti scesero. Di loro non so dire il nome, né il male, né il bene. Di questa storia, capisco solo che la Gina vide tutto in anticipo, e ne soffrì. Vide Cati morire dietro una felicità indisponibile. Vide lui convincersi di una privazione necessaria. Entrambi certamente restarono a lungo senza città, senza definizioni. Ma forse alla fine fuono capaci di amore. L'ultima scena che so immaginare, è lui che la fa montare sulle sue spalle e comincia a correre a perdifiato sui prati in salita, facendola ridere e sobbalzare, cantando le canzoni inglesi più rotte e oscene. Lo vedo capitolare affondando nell'erba con lei appoggiata al suo petto, continuare a ridere con la bocca grande, libera, e gli occhi che a malapena reggono il sole, un sole caldo, folle, splendido, che fa del prato un deserto di fiori e fichi maturi.

lunedì 7 febbraio 2011

Viaggio romano

La cosa più romana del mio fine settimana a Roma è stato un viaggio involontario con una comitiva capitolina.

Quello di fronte a me indossa pantaloni a fantasia scozzese leggera profilati di celeste e bianco, scarpette di camoscio grigio-blu, camicia fresca di bucato azzurrina e maglioncino di cotone bianco; la barbetta si rinforza sui lati, gonfiando le ganasce; i capelli, tendenti al biondo, sono tenuti dietro in un codino. 
Dal lato finestrino siede un altro, faccia alla Renato Zero, capelli più corti con la riga in mezzo, denti distanziati, occhiali con lenti grigio-fumo, risata alta, femminile, che ricorda un comico dal ritornello ossessivo "Chi è Tatiana?", pantaloni di fustagnetto, maglioncino grigio a costine, camicia grigetta, sciarpa annodata alla Bocelli, orologio importante.
Quello con il maglioncino bianco da skipper legge una rivista specializzata di moto. Parla con un terzo, occhialetti da bravo ragazzo, capelli perfettamente rifilati con leggera cresta caudale, maglioncino zip da cui emerge la camicia rigata rosa e bruno-castoro, borsello piquadro. Discutono di una carrozzeria - si occupano forse di macchine d'epoca - e di un certo cliente, citando cifre a tre quattro zeri; commentano la rivista di moto a cui sono abbonati e la velocità di questa freccia rossa. Attorno sfilano i colli laziali, assolati, d'un verde-febbraio. I colori non sono ancora maturi, bisognerà aspettare giugno per i profumi macerati al sole, per la campagna esplosa. Ma pensando al grigio e piatto Brandenburgo che circonda Berlino, mi viene per contrasto un'immagine di campi russi, steppa, fili d'erba scoloriti, distanze ostili, case rigide su dura terra.
Quello con la sciarpa parla a un quarto, scherza su Lele Mora, canta un ritornello ironico e godereccio. Il quarto sta leggendo Quattroruote; ora dà una gomitata compiaciuta ad un quinto. Scopro che due blocchi di sedili sono occupati da questa comitiva di quarantenni romani, piacenti, sicuri di sé.
Ad un certo punto comunicano tutti insieme fra loro, occupano l'aria con le voci, si rimbalzano scherzi da un sedile all'altro: lo scompartimento diventa una piazza. Sembra di essere in un film di Opzetek. Si chiamano per cognome: Rossini, Marinelli. Parlano troncando tutte le parole, discutono la scelta della trattoria dove mangiare sabato.
Ora quello con il codino chiede le pringles e una bottiglietta d'acqua alla donna che spinge il carrello nello spazio fra i sedili, ma prima si passa una mano sui capelli, aggiusta la voce, gli viene fuori suadente, morbida.
Penso che l'Italia rimarrà sempre così com'è, e che appartiene a questa classe di persone, non ben tracciate, ai carrozzieri che intascano la metà dei guadagni in nero, che hanno la barca e seguono Valentino Rossi, agli assicuratori che indossano le scarpe di camoscetto, quarantenni single che non se ne andrebbero mai dall'Italia - se non per aprire un residence ai Caraibi -, perché l'Italia appartiene a loro.
Non illudetevi, commentatori dei nostri tempi che tentate teorie massime: imparate da quelli che fregano il fisco per dar prova di intelligenza e audacia, da quelli che vivono al sole consapevoli di non parlare alcuna lingua straniera, il cui estremo grado di teorizzazione può riguardare solo una strategia calcistica. Hanno imparato dalla mamma come vestirsi, vanno alle terme, fanno girare cifre sommerse, hanno un'idea di futuro possibile, senza macchie e senza ombre, e amano l'Italia, la amano così com'è.
E chi sta meglio di loro.
Ora uno dice: "Ammazza che silenzio su sto treno, aò!" e fischietta per compensare, con un certo grado di maestrìa allenata, la melodia di Cenerentola: I sogni son desideri...

Un milanese e un romano: non sono italiani allo stesso modo.
Mentre scrivo, siamo fermi da dieci minuti a Firenze. Uno dei romani batte sul finestrino: "'Nnamo!". Quello stesso controlla guardando fuori un uomo e una donna adulti, innamorati, avvinghiati su una panchina. "E basta mo'! So' du' ore che se baciano questi, mo' se consumano. Se stano a bacià da quando ce siamo fermati, stano da du' ore in apnea!". E mi fa ridere, mi devo nascondere la bocca dietro due dita.
Adesso si alzano in cinque, all'invito di uno di loro: "Oh, 'nnamo a farci un caffè". Su questo treno c'è per bar solo un rettangolino nudo con una macchinetta da caffè d'emergenza, ma loro avanzano nei loro pantaloni attillati che avvolgono le gambe muscolose, da antichi romani, avanzano per il corridoio del treno con la stessa baldanza che se fossero nel loro quartiere. Passando affianco a me, uno di loro mi dice di stare attenta ai tre che mi sono seduti attorno. Vorrei interrogarli, sapere cosa faranno a Milano, ma mi dico che in questo momento il più piccolo elemento femminile, la minima contaminazione alla violetta guasterebbe la perfetta scena iper-cinematografica tutta al maschile. Questi giovani uomini che ruminano la loro erba fresca di terra e calda di sole, che ripetono gli stessi scherzi di quando avevano sedici anni, facendo il verso agli annunci automatizzati delle ferrovie, non sanno di essere parte dei mali italiani che loro stessi denunciano. In fondo, però, solo per il fatto che riescono a ridere da due ore, che hanno trasformato la carrozza numero 10 in un teatro, che mi hanno fatto ridere, su questo treno che mi riporta nella dura Milano, li amo come se fossero compaesani ritrovati.



martedì 1 febbraio 2011

Fragile

nell'amore ero
papavero chiuso che sciogliendo la sua torsione
esplode