lunedì 29 dicembre 2014

Prager Platz

Ci incontrammo sotto la statua del Verkehrsturm in Prager Platz. In corrispondenza del braccio destro del monumento, celebrazione del primo uomo-semaforo, lo vidi arrivare in lontananza, entrare da Doktor Handy e uscirne dopo qualche minuto. Io ero in anticipo e avevo uno sguardo privilegiato sui movimenti altrui. La piazza era brutta e dominata da un cantiere aperto, un ventre squartato che ora veniva squadrato e ripartito in lotti. Questo era stato il destino delle città sotto il regime, soffocate prima da monotoni Plattenbau di tipo estensivo e ora da catene commerciali di basso profilo. In quell'ora di punta ne uscivano donne dalle borse rigonfie di cianfrusaglie, misera illusione di abbondanza.
Ci recammo al Kunst Café sulla riva destra dell’Elba. La chellerina solerte ci portò della birra scura schiumosa che bevemmo subito. Per cena si andava da sua madre, perciò decidemmo di mangiare qualcosa prima.


Nella sala da pranzo ogni oggetto, ogni quadro, ogni fonte di luce erano tenuti insieme da una forza ordinatrice. Le mele rosse e gialle, il grande cesto con le noci, il candelabro di vecchio argento; sotto l’arco un bassorilievo posato a terra, testimonianza di altrui rovina, di rapace sottrazione. Non esiste ricchezza che non abbia avuto origine da una depredazione, per quanto seppellita nel passaggio di generazioni. La madre sedeva su più cuscini avvolta in un ampio tessuto. Non si poteva dire che fosse trascurata, ma la sua persona emanava un senso di misura stretta. Alla sua destra fumava una grossa zuppiera, alla sinistra attendeva un piatto di formaggi. Era lei a servire la minestra, due mestoli a testa. Il piatto con i formaggi restava al suo posto e non sarebbe stato offerto: per ogni cosa bisognava chiedere. Il patrimonio non era campo di partecipazione, esso si manteneva e si nutriva con un severo senso della misura. Nessun materiale nella casa – uno dei tanti immobili di famiglia, spartiti in fondazioni e in rivoli sotterranei – era meno che pregiato. Ogni acquisto – un tavolo, un quadro – era anche una forma di investimento, ancoraggio di capitale. A questa logica avveduta si sottraevano solo i beni alimentari di uso quotidiano. Non uno di quei beni messi a maturare, come una certa bottiglia di whisky, o altra rarità che a quel livello di società si amava scambiare per suggellare un’appartenenza. Il cibo veniva consumato con prodigalità e acquistato in supermercati dozzinali. In contrappunto a quella consistente e solida abbondanza materiale, per la propria sussistenza valeva l’uso di mantenersi sotto la soglia della sazietà. E così per i propri ospiti, così per i propri figli, a cui si misurava il pane. La donna si serviva ora con indifferenza dal piatto dei formaggi, che rimaneva alla sua sinistra, fuori dell’ambito di diritto di noi due, che avevamo il piatto fondo vuoto. In pochi minuti il pranzo fu terminato. Io e lui ci scambiammo rapidi uno sguardo e io posai la mano sul mio ventre, ammiccando all’oca mangiata nel Kunst Café.

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei liberi di cuore.

Dresda, 25 ottobre 2014

domenica 18 maggio 2014

LA BAIA

Sino a quando potrò stare qui nella baia sotto la luna radioelettrica senza disintegrarmi in  particelle gassose di buio primordiale?

Il fianco della montagna respira insieme agli animali predatori, manifestandosi dal buio all’ultimo momento. Non è il suo cuore che percepisci, ma involontari cedimenti nella tenuta, una fonte che suda, un sasso che si stacca. E la montagna intera è ben oltre la capacità dei sensi, molto più grande e dolorosa, indifferente nella sua abitudine ai millenni.

D’improvviso una civetta lancia un grido misterioso; lo perde fra i rami, lo ripete; lo frantuma contro la montagna.

È freddo, ma il corpo non sente aggressioni; solo il liquido lunare fa paura, quando l’acqua si ferma. Allora lo splendore stridulo diventa orribile. Pure la montagna trattiene il fiato.

C’è una presenza con me di vedetta.

Non sai da quanto tempo noi siamo qui, a cercare di dimenticare.

Chiedilo alla civetta.


Presso la luna il senso d’inquietudine cresce come una marea, ma dietro c’è solo buio. Non sappiamo dove andare, e il buio non finirà.

La luna, vedi, questa luna è orribile. È un’altra luna.

C’è stato un fruscio. L’ho avvertito nettamente, anche se era lì dietro e non potevo guardare. Ce ne sono altri, oltre noi.

L’acqua è un essere attivo. Sta montando le mie memorie con una lucida intelligenza. Le onde si appiattiscono, man mano che i ricordi vengono dimenticati. La montagna respira affianco.

Ora non fa più male. Io ho quasi dimenticato tutto e forse il trattamento è finito. Vorrei dirti di stare dove sei il più a lungo che puoi.

Da quanto tempo aspettiamo? Il tempo è la struttura più dura da sradicare. Forse è per questo che ancora non vengono. Fisso l’orizzonte, non ho altro da fare ed è l’unica cosa che conta. Quello che ci sta facendo quell’occhio fisso, petroso e stridulo è terribile. È tutto così indifferente. Gli altri sono solo presenze. Siamo qui nella baia e non possiamo intenderci in alcun modo.

Questa però non è calma. Non è neanche tristezza. Non è notte perché non c’è stanchezza. Non è sogno perché non c’è sonno. Non è natura perché non ha radici. È solo il trattamento.

Chi fossi dall’altra parte non lo so più e per loro non ha più importanza. Per me naturalmente sì, l’aveva. Ma adesso c’è tutto questo buio e dovrebbe fare freddo qui nella baia, ma non si può sentire niente.

Ognuno qui ha una presenza affianco. Si sentono degli zoccoli schiantarsi nell’emisfero della baia, dei gorgoglii rapaci.
  
Il trattamento deve aver avuto dei buchi perché improvvisamente ho ricordato qualcosa e ho sentito una fitta molto forte e un dolore. Ho ricordato i colori. Dall’altra parte c’erano tutti quei colori, tutte quelle vibrazioni sovrabbondanti.

Lui era sempre accanto a me e quando ho cominciato a ricordare queste cose ha mosso un po’ la testa, che aveva sempre tenuta fissa verso l’orizzonte. Laggiù c’erano tutti quei drammi.

Laggiù c’era l’amore.

Quando ho detto nella mia mente questa frase, come se fosse un altro a parlare, ho chinato il capo sconfitto. Ho ricordato un momento in cui andando incontro a una persona che mi sorrideva, ho sentito riverberare un forte calore come un bagliore dolce. Stendevamo le braccia orientando le mani, come se fossero antenne per sentire. Ogni cosa amavo di questo essere, la forma che le molecole avevano preso partecipando al suo insieme, il modo in cui i muscoli della bocca contribuivano ad espanderne il sorriso, e le mani giovani del neonato che s’era fatto uomo. Non c’è confine fra un amore e il costante pericolo di morte. Adesso so che eravamo chiamati per il dramma, e che era una grande scena.

Tutto quel tendere, e sperimentare, quell’accendere e quel partecipare, era questo che volevano. L’umanità. La guerra che non ha compreso la perdita. Bastava ricordarsi dei colori.

S’è fatto uomo per patire sulla terra delle passioni.

Vorrei dirti di stare dove sei, perché non avrai molte altre occasioni. Il tuo dramma è il colore che ti è stato assegnato.

Ed è il più bello per te.

Qui non c’è rumore, perché nessuno chiama i compagni. Nessuno mi chiamerà, nessuno si muoverà per cercarmi.

Laggiù c’era la compassione.

Sai immaginare una notte senza temperatura? Un freddo senza sofferenza? L’altrove è molteplice, ma ovunque non potrai trovare il sole.


Sono arrivati dallorizzonte scivolando sul liquido lunare. Le barche erano strette e lunghe, e loro sottili e senza volto. Quando arrivano non c’è tempo per pensare, è l’ora.

Come senza peso sulla barca è salita anche la guida che aveva vegliato con me sull’orizzonte, un cavallo bianchissimo rilucente.

Per un attimo che non aveva tempo un vortice di panico mi ha risucchiato. Ho un’altra occasione sulla Terra, un’altra vita da patire. Ma nell’aldilà non potrò ricordare questa lastra liquida dove si viene portati infine, la baia dell’attesa. Laggiù tutto è dimenticanza, abbaglio del sole, abbondanza.


3 aprile 2014
Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

Microeconomia attorno al Berghain

Esiste un luogo a Berlino, una ex centrale elettrica, che viene considerato un tempio. Il tempio della musica elettronica: il miglior club techno del mondo, un imponente e misterioso edificio fra Kreuzberg e Friedrichshain che al suo esterno non lascia trapelare niente, se non le vibrazioni sonore più basse che scuotono la terra. Il Berghain è un club, e, secondo molti, senza la droga non esisterebbe.
Per capire cosa succede attorno a questo tempio, bisogna frequentare l'area circostante verso le cinque del mattino. Può capitare che a quell'ora ci sia ancora la coda, o una nuova coda, davanti all'ingresso. E molto altro.
Nell'area che conduce al tempio, altrimenti vuota e desolata, si esprimono i fattori microeconomici della discoteca. Attorno alle persone in coda nuotano raccoglitori di bottiglie vuote come pesci pulitori, trascinando buste di plastica rigonfie di vuoti da 0,8 centesimi. Accanto al marciapiede lungo la strada sosta una lunga fila di taxi che attendono di raccogliere gli avventori storditi. Lì accanto, un imbiss fornisce per tutta la notte bevande e cattivo cibo di prima necessità. Più indietro, verso la ferrovia urbana, sorgono gli edifici dai colori quasi fluorescenti di un ostello, meta dei turisti che si recano a Berlino proprio per una serata - una nottata o un intero fine settimana - al Berghain.
Esiste un altro settore economico che ruota attorno al tempio: la circolazione della droga - di quale tipo non saprei dire.
Questa è solo l'economia di contorno. C'è poi il denaro che circola nel club: 12, 15 o 20 euro per l'ingresso, più il guardaroba e le consumazioni. Per una nottata al Berghain, anche se non si vogliono bere alcoolici, bisogna investire una certa somma almeno in acqua: il fumo (sintetico, di sigaretta e altro) è talmente denso che brucia la gola.

La mia prima volta al Berghain è stata non programmata.
Nel pomeriggio ero andata a trovare un'amica presso il suo banco al mercato. Dopo aver discorso a lungo sulle sue vicissitudini, salutato tutti i colleghi concedendosi ancora una birra, e passato interminabili minuti ad organizzare la serata, mi convince ad accompagnarla al Berghain; prima però vuole tornare da lei per bere due caffè. Indugia così tanto che alla fine usciamo di casa quasi alle due di notte - sicuramente per non andare al club "troppo presto". Io ho una giacchetta nera ridicolmente leggera, e lei mi presta un mantello di lana sintetica, con il risultato che sembro una nonna incinta: ma la notte fuori può essere molto lunga.
Da Britz pare di non poter arrivare mai. A Ostkreuz bisogna cambiare. Fa già freddo e attorno a noi circola la dubbia gente della notte berlinese: gruppi di ragazzi con le bottiglie di birra in mano, tifosi che inneggiano alla squadra con cori da formazione militare; uomini persi che parlano da soli rispondendo a una voce immaginaria; ubriachi; giovani diretti a Warschauer Strasse. Arriviamo davanti al Berghain alle tre.
Esistono in rete molti ridicoli articoli che dispensano consigli su come superare la selezione al Berghain. In coda verso il tempio sono così presa dalla penosa scena (i selezionatori falcidiano potenziali avventori senza misericordia, e questi giungono le mani in preghiera supplicando di poter entrare), da non accorgermi che è arrivato il mio turno. L'uomo all'ingresso, slanciato, muscoloso e scuro di capelli, che affianca un buttafuori druidico, certamente famoso nel mondo per il suo ruolo ("Che lavoro fai? il medico, l'insegnante, il cantante?" - "No, faccio il selezionatore del Berghain"), mi rivolge una domanda in tono sprezzante, in modo così sintetico che io non la colgo. Lo guardo in modo tranquillo. "Ehi, parlo con te. Sei sola?". Certo, sono sola. Bisogna rispondere così, mi aveva spiegato la mia amica. Non lasciano entrare coppie o gruppi: forse un individuo autonomo e a sé stante può essere più interessato alla buona musica elettronica che all'evento mondano. Sono consapevole di avere un cappotto da nonnetta, ma avanzo di qualche centimetro il piede destro, così che si veda che sotto ho gli stivali neri. Passo la selezione. Ai margini un gruppo di francesi si lacera in un conflitto morale: i due ragazzi sono passati, mentre le due biondine no, e ora i maschi devono decidere se sprecare la loro occasione di accedere al tempio o seguire le ragazze. In ogni caso, sono davvero troppo giovani, e forse il selezionatore ha giocato con loro pur intendendo mandare via tutti (sono sicura che alla lunga un lavoro di quel tipo possa fornire competenze psicologiche finissime).
Una volta dentro, si viene sospinti in un'area buia e spoglia, dove due guardiani del tempio, un uomo e una donna, aprono le borse e buttano via tutto quello che loro ritengono inammissibile; poi passano le mani sul corpo per controllare che non ci siano oggetti con cui ferire o forse armi. Superato il controllo, e lasciato il soprabito al guardaroba, si può ascendere al cuore del tempio, attraverso una lunga scala metallica. Salendo, ci si immerge sempre più profondamente nel buio e nella nudità del luogo, riempito di fumo, luci movimentate e detonazioni elettroniche.

Ci sono due sale, e vari angoli più appartati, una grande piattaforma che funge da altalena vicino al bar e pochi cubi su cui sedersi. Ma il cuore pulsante del tempio è lo spazio al centro, alto diciotto metri, dove un impianto audio prodigioso sbatte contro il cemento armato suoni cupi e metallici, avvolgendo gli avventori in un sisma sonoro. Per me è troppo. Non sento più il cuore, perché è come se i potenti watt lo assorbissero e lo dilatassero, estraendolo dalla cassa toracica. Mi rifugio per qualche minuto sull'altalena, e intanto osservo gli altri. Ci sono tranquille coppie che sorseggiano acqua dondolando sulla stessa piattaforma (perché qui e non sotto le stelle?), gruppi di amici che bevono discretamente, un ragazzo muscoloso che si è rivoltato la maglietta dietro la nuca, scoprendo il petto, una ragazza dal corpo sinuoso e scultoreo, bellissimo, avvolto in una guaina di pelle da giaguaro nero; nessun vestito di paillettes, nessun tacco a spillo, nessuna esposizione di cattivo gusto. Tutti sono assorbiti dal buio, dalle nubi fumose, attraversati da tagli di luce rossa o da lampi improvvisi. Decido di provare a stare per un po' al centro, sotto la fonte di vibrazioni. Ognuno ha poco spazio per sé e si muove appena: non è una vera danza, è un dondolio di assorbimento sonoro. Cerco di stare attenta alla musica, seguendola con gli occhi chiusi. Il DJ sta cercando di dire qualcosa, lavora, improvvisando e ammorbidendo, ad un'architettura complessa, che però ha un fine; sento come avvolge di ritmi irregolari flussi interrotti di melodie, sollecitando tutti gli organi interni uno ad uno. Il DJ non solleva mai lo sguardo, indossa degli occhiali con la montatura bianca che sono come una maschera da saldatore. Lui non salda ma spacca, divide il ritmo irregolarmente, mentre un conglomerato di bassi altera la fisiologia del corpo. Non pensare, fidati delle scosse sintetiche, dondolati mentre il Dio-suono irradia dal centro vibrazioni neuro-linfatiche.
Mi sono alzata alle sei, e ora sono quasi le sei del giorno dopo. Come fanno gli altri ad andare avanti senza cedimenti? Mi torna in mente la frase con cui mi avevano presentato il club underground: il Berghain senza la droga non esisterebbe. Mi chiedo se il mondo fuori stia continuando ad esistere come prima che entrassimo qui, se là permangano ancora la luce e la variazione ciclica del giorno e della notte. Decido di scendere dal luogo sacro del tempio al piano inferiore e davanti al guardaroba trovo dei divani su cui provo a dormire mezz'ora. Della mia amica ho perso le tracce, è impossibile trovare qualcuno sotto i colpi dei raggi psichedelici. Dopo un poco viene portata a braccia una ragazzona bionda, trascinata fuori da due uomini e adagiata su un divano. La ragazza ha gli occhi aperti, ma è come se non reagisse, i piedi non la sorreggono, e scivolano sul pavimento mentre i due la traggono fuori dall'influenza del Dio-suono. La lasciano lì, io riprendo sonno. Dopo qualche minuto viene una donna, silenziosa e dallo sguardo fermo. Mi dice: Vai a casa. In effetti è quello che voglio fare, sto solo aspettando l'alba per non uscire nel buio. Poi va dalla ragazza in trance (immagino per sostanze assunte), le si siede accanto e le fa un discorso pacato, in inglese.
Mi dico che le vere star là dentro non sono i geni della techno, non l'impianto 6.1 surround, ma i professionisti che lavorano impeccabilmente in un luogo opaco e alterato perché non succeda niente di grave a nessuno.
La notte al Berghain mi lascia un senso di inquietudine. Mi vengono in mente pensieri distruttivi, analogie con i bombardamenti, con le folle ammaestrate. Bagni di suono come bagni di propaganda. Penso che la gente sia soddisfatta nello status di seguace, sotto lo sferzare di impulsi forti, di pugni come di sismi elettronici.
Quando esco trovo ancora la coda, e le stesse discussioni di chi non passa la selezione. La gente arriva e va in continuazione, entra alle dieci di sera, alle due, alle sei del mattino. Alcuni entrano il venerdì ed escono la domenica. Si chiudono in un mondo parallelo, di cemento armato, dove non esiste più il giorno. All'uscita mi viene incontro la luce sottile e ancora pallida dell'alba. Passo la coda, l'imbiss, la fila di taxi, le facciate dell'ostello, e provo sollievo per strada. Improvvisamente la città ha sputato fuori della gente comune: persone che alle sette, con le facce lavate e le valigette o le borse, vanno al lavoro di sabato mattina. Nella stazione metropolitana però ci sono i segni della notte appena passata (che lì dentro, nel Berghain, non finirà che fra due giorni): esplosioni di vomito, bottiglie di birra per terra, sputi, sacchetti di carta residui, un paio di ragazze con le calze nere smagliate, ovunque tracce di passaggio umano. Il personale della metropolitana si muove con grandissimo spirito in mezzo a tutto questo. Seduta in un vagone semivuoto, ritrovo altri personaggi persi, uomini che transitano con buste di plastica e una bottiglia di birra aperta, pieni di parole che si affollano in testa e che fuoriescono dalla bocca in sussurri luciferini. Voglio solo tornare a casa, lavarmi via il puzzo di fumo e dormire.
Tante cose interessanti ho scoperto in questa città, soprattutto le storie delle persone, biografie passate attraverso la DDR, l'Ucraina in guerra, le prigioni iraniane, i ricongiungimenti familiari, la New York troppo esigente a cui ora si contrappone la capitale tedesca. Volevo ancora sapere cosa si fa a Berlino di notte, che poi è solo un aspetto di quello che vi viene fatto di giorno. Ho incontrato molte dipendenze. Litri e litri di birra e di vino consumati a tutte le ore, se non vomitati in metropolitana, senza pudore di fronte agli altri che guardano. Ricerca di stordimento, bisogno di appartenere a una scena, di adeguare l'abbigliamento e la postura a un modello, consumo di droghe, facile sperpero di soldi, ricerca di esperienze da divulgare sui canali comunicativi, bisogno di un sogno collettivo in un oblio radicale della natura e della salute.

In un libro ho letto: "Il futuro del mondo è affidato ai gialli e ai marroni adesso che i nostri ex padroni, i bianchi, stanno precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile".

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

domenica 13 aprile 2014

Burrasca nella città di porto

Festoni di cirri
circondano
l'antemurale del porto
e nel rapido autunno
delle botteghe
scrosciano serrande
a difesa dei baccalà
e dei sott'olio.
Al di là del molo
occhieggia il faro
nelle pieghe dell'onda.
Il passante ne segue
la cadenza dalla sponda
mentre s'affretta ai portici
con le mani in tasca
prima che smuova il cielo
la burrasca.

Resti

Lievita un nuovo amore
e nel suo albeggiare rosato
s'ammala accigliato
di timore e sgomento
che di tutto l'ardore
e lo stordimento estivo
resti una spoglia
di cicala nel vento.