martedì 31 dicembre 2013

Family

FAMILY

È colui che più ama la propria famiglia che ne diventa il peggior critico. Chi riesce a sorvolare su troppe cose, a fare buon viso a cattive usanze, non dando peso ai vizi e alle credenze, in fondo non ha a cuore gli individui della famiglia, ma solo il proprio quieto vivere. I suoi fratelli, ad esempio, lo deridevano perché lui se la prendeva maledettamente per l'abitudine che avevano i genitori di riempire gli scaffali di medicinali e di rifornire ogni stanza di calendari della farmacia, con un diabete o un Alzheimer ben esposti mese per mese. Non sopportava il tipico modo del padre di alzarsi dalla poltrona o di camminare trascinando le ciabatte come se necessitasse di un girello, per la semplice consolazione di sentire l'inerzia del corpo, o l'ottuso modo della madre di ripetere dei commenti di estrema destra contro gli immigrati solo per sentirsi dalla parte dei forti. Quello che lui sopportava meno di altro era l'atteggiamento della sorella, che non potendo uscire dalla ragnatela della famiglia - zitella  e con un lavoro di contabile per una piccola ditta -, imitava la voce, la postura e persino le parole dei vecchi genitori. Da qualche tempo questa sorella aveva preso ad occupare la poltrona del padre, dove lui usava stare seduto a leggere mentre la moglie cucinava il pranzo, e dove tornava a sprofondare subito dopo il caffè. Ora era la sorella che dopo pranzo si posizionava su quell'avamposto, e da lì controllava i movimenti degli altri, costringendo il padre a cercare rifugio nella camera da letto. La sorella, proprio come l'anziano padre, aveva commenti per tutto e per tutti, e da quella postazione fissa dispensava sguardi. Da piccolo lo aveva sempre infastidito la vacua e pigra presenza del padre, che dalla sua assenza sostanziale si nutriva dell'attività altrui: vagava per la cucina irritando la moglie, compariva come un'ombra dietro il figlio mentre questi ascoltava musica, si avvicinava alla figlia mentre leggeva per chiederle: "Stai leggendo?". L'assenza di relazione veniva colmata con parole, interrogatori, commenti, che grattavano la superficie irritandola, senza mai toccare corde più profonde e vitali.
Era certo che i genitori intravvedessero la tristezza di questa figlia in poltrona che da qualche tempo pareva essersi rassegnata alla sua condizione. Tutte le settimane si presentava per il sacramento del pranzo domenicale, si sistemava sulla poltrona, e si disponeva a tessere per ogni fatto della vita e della giornata un commento. Ultimamente non finiva neanche più le frasi, tanto era impegnata a riempirle della propria voce: cominciava un'osservazione per poi virare verso un altro enunciato neppure ben articolato, consistente in un'autoesplorazione del proprio vuoto, un susseguirsi di "vedi, è proprio così che uno poi... ah bene, sei riuscito, del resto non è che tutti possono farcela, ma tu sei proprio quel tipo di persone che... hai visto com'è buio già? eh, sarà lungo l'inverno, per me che mi devo alzare presto, eh, così è... chi è, la Betta? eh, dille che poi la richiamo, eh, c'è chi ha tanto tempo, proprio tanto... hai visto che è sceso il freddo? non mi dire che è già arrivato l'inverno! estate o inverno, io mi devo sempre alzare presto lo stesso... ah, dovrei proprio andarmene su una spiaggia... ma prendere il treno pure in vacanza, uhm... adesso si lamentano tutti dei treni, eh!, quanti anni ho viaggiato io in piedi come su un carro bestiame, ora si sono svegliati tutti... ah, bello quel maglione, te lo sei messo, sembra caldo, cos'è lana? misto? eh sì ora ci vogliono i maglioni più pesantini... ah, l'hai usato allora quell'orologio? cos'è, a molla? bello, triangolare, ora si usano tutti così, questo mio è vecchio ormai, ma tanto, eh, che vuoi farci, va bene lo stesso...". Poteva andare avanti così per ore, con voce tediosa e mal controllata, nella riduzione del creato alla sua misura.
Lui aveva l'impressione che ai genitori stesse bene così, anzi, che loro avessero in segreto cullato la speranza che la figlia rimanesse vicina e fedele. Proprio quando stava cominciando a chiedersi se i suoi pensieri non fossero esagerati, la sua bambina, in visita dai nonni, cominciò ad accusare uno strano nervosismo, come se fosse esasperata, sinché senza preavviso non esplose gridando in mezzo alla stanza in preda alla sua prima crisi di nervi: "Basta, state sempre tutti a parlare, sento solo queste voci, basta!". Un altro giorno aveva sentito la sorella giocare con la nipotina, mentre, dando voce ad una bambola, imbastiva un dialogo lamentoso: "Non uscire, fa freddo fuori, dove vai, ti puoi raffreddare, resta qui...". Aveva allora provato moltissima pena per questa sorella, perché "resta qui" era stato il ritornello della madre anche nei suoi confronti, motivato da una serie di ansie per pericoli percepiti in ogni ansa dell'esistenza. La sorella aveva in fondo solo obbedito alle richieste della madre: "Resta qui, dove vai, fa freddo fuori, non andare, qui stai meglio...".
Ciò che le famiglie non dicono - desiderare i figli incapaci di fare le cose, considerare i genitori incapaci di cambiare - è il vero scandalo, pensava.



PARTNER

Succedeva sempre all'improvviso che durante una conversazione al bancone di un bar o alla scrivania, su una questione di lavoro o su un argomento più rilassato, l'interlocutrice cominciasse a guardargli la bocca, fermandosi sugli angoli delle labbra, e non alzasse più gli occhi. Sapeva bene, perché aveva avuto delle corteggiatrici molto esplicite, che disponeva di una particolare esca, una speciale piega che prendeva la bocca quando parlava, che risultava irresistibile. Quando lo sguardo di una donna abboccava, lasciando appesi gli occhi al breve movimento di quella piega, capiva che la sua interlocutrice non lo stava più seguendo. Cominciava allora una negoziazione con se stesso sul da farsi, perché se da una parte a quel punto era facile portare avanti le cose sul piano personale, dall'altra non sopportava che alcune donne trovassero più interessante un dettaglio fisico insignificante rispetto alle parole che diceva. Più in là con l'età prese ad assaporare l'effetto di un certo potere, che poteva esercitare sino in fondo, rendendo ancora più ammiccanti le movenze della bocca e ancora più indifferente il proprio atteggiamento verso la donna. Dopo tanti episodi impuniti, un giorno la ragazza che sarebbe diventata sua moglie l'aveva messo al suo posto, chiedendogli con aria di sufficienza: "Ti trovi molto bello, non è vero?".
Ci aveva poi messo molto a convincerla a sposarlo. Lui aveva una buona posizione e una casa di proprietà in città, più un rudere di villeggiatura che stava rimettendo a posto. Lei era una donna molto curiosa che si era spostata ogni anno per vivere in un posto diverso, perdendo la possibilità di fare carriera, ma restando sempre molto interessata alle storie degli altri e alla propria evoluzione. Pensava che una donna così fragile avrebbe potuto conquistarla in breve tempo, esponendo come una coda di pavone le sue proprietà. Ma lei non era una merce di scambio. Anzi, ciò che la irritava negli uomini era proprio l'esibizione di forza, e ancor di più un certo atteggiamento dell'uomo arrivato che considera l'amore la ciliegina sulla torta, un abbellimento del quadro, un divertissement. Non sopportava l'uomo sicuro della propria posizione, disposto a includere una preda nel proprio territorio, ma non a spostarsi da lì. Sapeva di aver perso l'occasione di trovare un ragazzo suo coetaneo brillante e sincero che avviasse con lei un progetto nuovo, perché quella era l'unica condizione per il vero amore: incontrarsi da due posizioni diverse per muoversi verso un territorio vergine. Di fare la dama di compagnia non aveva proprio l'intenzione. Era vero però che molte giovani coppie che all'inizio avevano trovato un interesse comune in un'attività sportiva o nell'idea di una famiglia da fondare, avevano poi compreso quanto superficiale fosse il loro legame sentimentale e quanto illusoria la loro complicità. In generale per lei i rapporti d'amore erano infatuazioni che poi presentavano un conto salato in termini di riduzione della libertà personale.
Questa volta però non riusciva a smettere di pensare a quell'uomo vanesio e arrogante. Per di più lo incontrava di continuo, senza volerlo, come se il destino volesse prendersi gioco di lei. Lui voleva sempre presentarla a tutti, la invitava a casa dei genitori in provincia, le trovava collaborazioni con la sua azienda. Però c'era sempre un momento in cui lui diceva una parola sbagliata che le faceva capire quanto poco la tenesse in considerazione e quanto poco si accorgesse del suo acume, per esempio stupendosi quando i fatti dimostravano la ragione di lei. Fu così che, anche se alla fine si sposarono ed ebbero una bambina, lei lo lasciò dopo quattro anni. Eppure un episodio l'aveva messa in guardia sin da subito sul valore che lei aveva ai suoi occhi. Fu quando lui le ripetette oziosamente che se lei lo avesse sposato, tutti i suoi averi sarebbero stati suoi; allora lei poco dopo gli aveva chiesto per metterlo alla prova: "Mi regali un libro della tua libreria?", e lui aveva risposto tergiversando vagamente: "Ma no, non so, sono miei... Dai... andiamo di là ora".

lunedì 16 dicembre 2013

Perfect Day

"Upward-facing dog, downward-facing dog, breath! Inhaling, exhaling, two, three, four...".
Venti persone praticavano la disciplina nel locale dell'ex fabbrica di pianoforti sui tappetini ben allineati. La combustione dell'incenso di elemi espandeva nell'aria riscaldata una qualità sacra. Oltre le grandi vetrate risaltava un cielo blu intenso ritagliato da tetti a punta e facciate ricoperte di pitture murali.
La pratica dello yoga allenava il pensiero e l'attenzione muscolare sino ai limiti. Il potenziamento dell'energia avveniva per una miracolosa combinazione di fattori nella più assoluta pace. Dopo sessanta minuti di perfezionamento, restava nella stanza un grande senso di gratitudine. Chi aveva preso parte alla pratica, sembrava "intoccabile".
Percorrendo il verde cortile affollato di biciclette, uno del gruppo uscì nella Oranienstrasse. Entrò nel Bateau Ivre, facendo risuonare il cuoio delle scarpe sulle tavole di legno, e si sedette al bancone. Mentre ordinava un tè di zenzero alla ragazza con la frangetta, in diffusione la voce di Lou Reed cominciò a cantare "Perfect day".
Il 26 giugno del 2017 era un giorno perfetto. In un'altra parte della città, qualcuno l'aveva calcolato, programmato, aspettato.
Il barista stava sfogliando un giornale in un momento di pausa, altri guardavano un piccolo schermo. Si parlava sempre della Russia, l'ex gigante dell'energia. Il mondo era pieno di nemici apparenti, probabilmente funzionali ad un certo sistema. Gli servirono l'ordinazione. Per chi praticava la disciplina ogni giorno, non aveva attrattiva la possibilità di leggere un giornale e al contempo di controllare la posta sul telefono mobile lasciando raffreddare il tè. Bere il tè bastava. Ogni cosa bastava in sé. Aprire una porta per uscire, stendere un braccio in alto e sentire l'elevazione. A lui interessava il potere personale, la capacità di mettere da parte l'ansia o di congedarsi da una situazione usando la visualizzazione. La possibilità di escludere molte informazioni impure gli consentiva di preservare una giusta pace. In una città come Berlino, con tutta quella aggressività compressa nella metropolitana, ma anche un grande potenziale spirituale, non avrebbe potuto fare a meno della sua pratica quotidiana. Si alzò sull'ultima nota della canzone. Aveva appuntamento con un'amica nel Viktoria Park, il suo luogo preferito a Kreuzberg.
Il sole era tiepido ma radioso. Sulla verde spianata in salita due cani si inseguivano a grandi balzi. Una madre con il capo velato tirava fuori da una busta di plastica un pezzo di pane con il sesamo e lo porgeva al bambino. Due ragazzine bionde erano stese sull'erba con gli occhi chiusi e ridevano parlando della scuola. Un uomo con la barba passava più giù portando una chitarra nella custodia. Presso un grande tasso due ragazzi si allenavano lanciando il diablo e ripescandolo al volo. Il traffico della strada si sentiva appena. Era un giorno immobile, pacifico. La sua amica l'aveva avvisato del ritardo, sarebbe arrivata quindici minuti dopo: la gatta era scappata di casa e doveva riprenderla. Intanto lui affondava le mani sul prato erboso, e godeva nel sentire un certo tepore sui fili d'erba ruvidi. Da quella posizione poteva intravedere la croce che svettava sul monumento neogotico di Schinkel, un obelisco in ghisa infuso di orgoglio nazionale. Le due ragazzine ora si stavano sistemando le cuffie, da cui usciva un'opaca intonazione di A Hard Day's Night, mentre il bambino con il pane in mano passava loro accanto incuriosito, richiamato subito dalla madre. Questa fu l'ultima scena che vide, perché in quell'istante ci fu una detonazione violentissima che frustò l'aria e squassò la collina. Fu un attimo molto semplice di orrore purissimo e denso, una discesa in picchiata verso gli inferi. Nessuno delle persone sulla collinetta può raccontare cosa fu ad esplodere, perché vennero tutti dilaniati. Solo l'amica in ritardo, che giunse dodici minuti dopo sul luogo o nei suoi pressi (a stento lo si poteva chiamare ancora luogo), poté raccontare, sotto shock, di aver vomitato annusando l'acre odore di cadavere e di bruciato. Su un terreno squassato, irriconoscibile, si aggirò fuori di senno fra i corpi dilaniati e le sirene laceranti, cercando brandelli del suo amico.
Così finiva a Berlino l'epoca della pace e della pratica spirituale e cominciava una terza guerra.

Ho scritto questo brevissimo racconto ad un mese da una lettura inquietante. Un giorno mi ritrovai in mano un libro scritto da una famosa chiaroveggente berlinese che ad una sua cliente predisse: "Fra diciassette anni ti aggirerai in un parco di una città del Nord della Germania, un parco con vecchi alberi, e ti troverai in uno scenario di sangue e distruzione, con molti morti attorno, come dopo un attentato".

Il 26 giugno 1963 John F. Kennedy pronuncia la famosa frase "Ich bin ein Berliner".
Il 26 giugno 1964 i Beatles pubblicano l'album A Hard Day's Night.
Il 26 giugno 2000 il testo del terzo segreto di Fatima viene divulgato.
Il testo del segreto fu dettato in apparizione dalla Madonna a tre pastorelli nel 1917 e tenuto segreto sino al 2000. Una parte del segreto non è stata ancora rivelata: si ritiene sia troppo sconvolgente.

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

domenica 15 dicembre 2013

Sul pianerottolo

Non accendere la luce, resta ferma. Stai nell'angolo, nell'ombra, immobile, tieni stretto, intero, il buio che t'avvolge. Se si rischiara, cessa l'incantesimo. Resta ferma per le scale, sul pianerottolo, nell'angolo che il lampione dai vetri non raggiunge, al muro, con le spalle cedevoli, stordita dal fumo e dall'odore di saliva.
Non potevo mettere una distanza, stasera. Un incanto era, la sua bocca intonata alle parole e al desiderio che le tratteneva, tesoro minerale, antro di magnifica miniera. Com'è successo che non potessimo più reggere tutti quei passi vuoti, ridondanti di sincopi, tutti quei centimetri fra le nostre mani?
Piano, fai piano, non spezzare l'incanto, resta ferma al terzo piano, lontano dal portone che s'apre al giorno e ai passaggi, chiudi gli occhi e trattienilo con te, lo stordimento per quei baci a forma di stella marina, nudi come il muscolo cardiaco.
Cerco il buco della serratura alla cieca, entro come un elfo che non lascia impronte, non so più di che sostanza io sia fatta, forse mi hai rubato le molecole del senno, perché non comprendo più dove posarmi se non ti posso guardare. Mi sembra di dover girare attorno, su me stessa, come in un antico folklore di donne possedute. Giro in mezzo alla stanza e poso una mano sulle labbra, le sfioro, sigillo, trattengo, rievoco un'intimità. Cosa vuoi fare con queste mie labbra, dimmelo. Perché domani non mi serviranno più a niente, né a parlare, né a nutrirmi. Mi sembra che di tutti i miei sensi, solo una memoria precisa e attonita abbia sostanza, la dolcissima linea che fa da tetto ai lucciconi dei tuoi occhi.

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

giovedì 12 dicembre 2013

Fratello Gatto

Di Genova mi piacevano i venti foranei, ampi, che infilavano nel porto antico aria dal largo. Scrivendo degli anni liguri, non sono più in questa piatta landa di Brandeburgo, ma sul molo dei Doria, di fronte ai rimorchiatori, in una bava d'aria che increspa appena il mare, accanto a una fila di gabbiani urbani, sotto il serpente della sopraelevata con il suo traffico d'auto, e nient'altro si muove nella città addormentata.
Genova grigia d'ardesia, dorata di tramonti. Genova di cieli voltati a crociera.

Genova è tutta stretta, di sentieri e case in salita, appoggiata su un'instabile terra di torrente, terrazza salmastra di vedetta, castone di vecchie chiese e rolli, affacciata su una linea di mare giallorosa, su cui scivolano lunghe navi e chiatte, talvolta così lontane e ferme sulla curva terrestre da sembrare sospese nell'orizzonte-ascensore pronte a salire in cielo. 

Di Genova mi piacevano i caffè di Sottoripa, via San Luca, via Banchi, piazza Caricamento, stretti e cantilenanti, ritrovi portuali di una città senza più scaricatori, camalli, hammal arabi. L'aria di Genova è tesa da Boccadasse all'Ansaldo, s'infila per i carrugi, s'apre nel sestiere del Molo, solletica il drago di San Giorgio, sale da Palazzo ducale raccogliendo fragranze di focaccia e vermentino, e sosta a Castelletto, prima di ascendere ai monti. A Genova è tutto un gran salire. 

Abitavamo nel porto antico, era la nostra seconda casa. A Genova eravamo dal 1990 e in quel tempo si preparavano le celebrazioni colombiane. Lo ricordo perché dal 1992 qualcosa cominciò a cambiare, a rinascere. Pur venendo dal Salento estremo, da una dimensione anagrafica minuta, di Genova pensai ragazzina che aveva uno spirito morente, scolorito. In città scoprii gli autobus, che non avevo mai usato, e le creuze in salita, che allenarono la mia muscolatura in un modo nuovo.  

La nostra seconda casa era di moderna architettura, e sorgeva nell'antica area portuale dei Magazzini del Cotone. Mi piaceva molto, anche se essendo un alloggio di servizio della Marina militare, faceva difetto di calore. Non solo era esposta al vento, ma le mancava la protezione dei muri vecchi, solidi, delle mura storiche che contengono le case e le incursioni delle brezze.

Forse per questo senso di isolamento e per un'assenza di comunità (eravamo una delle tante famiglie meridionali al Nord, senza parenti né amici, affacciati su un mare estraneo, troppo profondo, e oppressi da monti inesplorabili), decisi di prendere un gatto. Per me un animale domestico (questo lo ricordo bene) significava allora mettere in famiglia tenerezza a compensare tensione, e anche segnare un nuovo inizio nella nostra biografia familiare. Non se ne parlava proprio: non ci si poteva permettere un tale vincolo. Noi eravamo la tipica famiglia migrante, che programmava l'inverno in vista del viaggio estivo verso Sud. Un gatto non rientrava nei nostri piani di spostamento.

Invece lo presi. A quei tempi ero in amicizia con un compagno più grande di conservatorio. Lui abitava in un brutto quartiere, una di queste addizioni di case periferiche sui monti. Sulla cartina tali appendici assumono la forma di serpentine senza sbocco, un'innervazione di strade prive di slarghi e ampiezze nobili. Di bello però Borgoratti aveva l'accesso ai sentieri, e infatti da casa sua partivamo spesso verso le alture a raccogliere more e corbezzoli per le crostate. Lui mi disse un giorno che una gatta del quartiere era stata vista figliare. Lo pregai di portarmi in esplorazione per le sue vie alla ricerca di uno dei mici. Ricordo che guidavo una Austin blu usata, presa insieme a mia gemella appena avuta la patente. Ad una svolta, scendendo in curva, vedemmo un micetto bianco e nero miagolare davanti ad un portone. Il mio amico scese dalla macchina, lo sollevò per la collottola e mi chiese: "Ti piace?". Io dall'abitacolo risposi di sì e mi presi il micio. Il viaggio verso casa fu drammatico, perché la bestiola, non adusa al trasporto su quattro ruote, pensò bene di farsi una passeggiata sul mio cruscotto e sul volante. 

Non so come arrivammo a casa, io e il mio ospite. Questo micetto bianco e nero, entrato nella mia vita un 31 agosto, strategicamente dopo le vacanze estive e il relativo viaggio verso Sud, aveva "una bella faccia tosta" (cito mia madre), una felina sicumera. Sebbene mi fosse stato subito intimato di portare via la bestia, in un modo o nell'altro Silvestro riuscì a rimanere con noi: e per vent'anni.

Di Silvestro, in quest'alba dei suoi ultimi istanti di vita, nel suo tramonto, ricordo tutto. Averlo in casa da piccolo era un divertimento. Ad ogni risveglio non sapevamo cosa avremmo trovato: chiuso in cucina, di notte si sfogava giocando con le patate o con le castagne, facendole rotolare su tutto il pavimento; chiuso in bagno, faceva dispetto a mia madre (colei che lo voleva chiuso, per difendere almeno le camere da letto) mordendo e srotolando la carta igienica, che riduceva poi in brandelli. Ricordo perfettamente, ora che i suoi occhi sono opacizzati dalla cataratta, il suo sguardo vispo e appuntito, lesto nel seguire le farfalle di carta che io e mia sorella preparavamo con grande spasso. Faceva gli "appostamenti" a mia madre: lei entrava in cucina e lui le saltava sui piedi, tirandole fuori un'imprecazione (però secondo me si divertiva, questa madre un po' dura ma sentimentale). Tutto capivamo di lui, io e mia gemella, sue complici: che voleva bere dal bidet (ci guardava seduto in quel trono bianco e fresco, passando la zampa sui fori di uscita dell'acqua - forse per la memoria di fonti d'altura); che voleva dare la caccia alle nostre prede di carta; che voleva acciambellarsi sul nostro letto, accanto alle nostre gambe e sotto le coperte (non ho mai capito da dove potesse respirare); che sapeva aprire le porte di casa saltando e pesando sulla maniglia; che abbassando le orecchie, mettendo il naso e le iridi a punta, e bilanciandosi sulle zampe posteriori, era pronto a scattare. Sulla pelle delle mani porto ancora la testimonianza dei suoi graffi rapaci, dei suoi serissimi giochi. Quanto abbiamo giocato: ore e ore della mia seconda giovinezza (avevo allora diciott'anni) insieme a lui. Per mia madre, nel suo lungo esilio genovese, è stato un rinnovato vincolo di cura, ma anche un'impronta d'infanzia in quegli anni malinconici con la figlia grande lontana; è stato la sua compagnia.

Ricordo ancora i miei studi al pianoforte. Silvestro si metteva in alto, regalmente composto, con la mostrina bianca in ordine, le zampe bianche perfettamente allineate, avvolte dalla coda in avanti - lo strascico ben disposto della sua pelliccia nera. Mentre suonavo, il suo sguardo seguiva le mie dita leste sulla tastiera: anche a loro faceva gli appostamenti, interrompendo Chopin con un cluster.

Fratello Gatto, in quale stella ti trasformerai quando lascerai questo suolo? Sei un testimone di famiglia. Ci hai seguiti in tutti i nostri viaggi, in tutti i traslochi, in tutte le nuove case, giocando con gli scatoloni e protestando in auto. Ricordo la tua voce quando eri piccolo. Ci hai messo tantissimo a dire il primo "mao": forse non ci ritenevi degni? Voce di ragazzino. Nella tua adolescenza, eri brutto: ti si era allungato il corpo, mentre il muso era rimasto piccolo. Avevi perso gli occhioni da micetto, e non avevi ancora il piglio del gattone. Poi sei diventato il vero padrone di casa, padrone della poltrona, del balcone e del pesce che rubavi a mia madre.

Sei stato il compagno delle sue lunghe mattine silenziose. Tornando dal mercato lei ti salutava, e mentre pelava le patate ti poneva delle domande, come si fa con i neonati muti. Come la tivù, tu non rispondevi, ma eri una presenza invadente. E poi sei andato a stare con mia gemella, che per anni ha desiderato un bambino. Avevi un'adorazione per mio cognato, anche lui così duro e commosso nel prenderti in giro, perché non ti staccavi dai suoi piedi.

Fratello Gatto, ora che te ne stai andando, vorrei riportarti nella tua Genova. O forse sono io che ho nostalgia del suo porto, del suo vento. Andiamo insieme a trovare la Superba.

Sei stato con noi sinché è arrivato un nuovo bambino in famiglia. Nove anni di speranza, nove mesi di attesa. E tu eri lì a raccogliere l'infinito bisogno di tenerezza. Ora che il bambino è qui, nelle braccia della sua mamma, tu ti spegni lentamente, ci lasci, come ogni spirito che abbia compiuto il suo ultimo dovere.

Andiamo a Genova insieme, ascendiamo a Borgoratti e saliamo sino alla vetta più alta, sino ai boschi delle lucciole. 

Era così bello avere l'età che avevamo.




     






lunedì 21 ottobre 2013

Wartezeit



Keiner ruft an
Ich nicht Du nicht
Uns fehlt Elan
Der Zweifel spricht 

domenica 20 ottobre 2013

Verlockung

Und nun bin ich schuldig,
wenn ich nadelförmige Worte
wie Regen im irdischen Fall
benutze, um Dich prall
bei mir zu haben
- ich brauche nicht zu graben,
um deinen Stolz zu finden -,
und ‘nen Kuss zu pflücken
unter den Linden?

mercoledì 21 agosto 2013

Il momento


Il momento è forte e ci prenderemo il tempo necessario. Come per me, anche per i bambini è il risveglio lo stato in cui pungente emerge un senso di distacco e di vuoto, un'incredulità. Nel corso della giornata poi le tante cose da fare e la vasta vita attorno rendono più sensata l'esperienza. Sto bene; la vita berlinese, specialmente in questo quartiere, ha uno stile unico, rilucente in costellazioni di trentenni e quarantenni sicuri e forti sulle loro biciclette e nei tanti bar e atelier, di bambini che esprimono libertà fisica e di movimento. Tutto è grande e assume svariate forme individuali. Mia figlia è molto eccitata e ben disposta, pare provare un gran sollievo nell'essere tornata, perché ancora non si rende conto e presto accadrà. Oggi si è fatta dipingere la bandiera tedesca sul braccio. Mio figlio è immerso in una sgomenta malinconia che per ora lo blocca nella ricerca di una soluzione per tornare indietro. Anche lui si sta prendendo tempo. Durante il viaggio batteva i pugni contro i finestrini chiedendo di poter scendere, dichiarando di voler tornare a Firenze anche a piedi. Ho assistito a una telefonata straziante fra lui e il suo amico di scuola, mio figlio piangeva affranto dichiarandosi in un incubo da cui voleva uscire, il suo compagno cercava di consolarlo con una retorica adulta; ho pianto moltissimo anch'io abbracciando il mio tenero bambino, così fragilmente fedele a ciò che si guadagna il suo amore. La nostra tristezza era di ugual natura. Noi abbiamo ugualmente amato Firenze, anche se era un vasto campo di frustrazione per entrambi. Ancora oggi mio figlio salendo per le scale ha detto "Voglio tornare nella mia casa, la mia casa è a Firenze". Parla della "sua bellissima casa", del suo migliore amico che ha "abbandonato e lasciato solo", dei nonni e delle zie. Io ho detto "La nostra casa profumava di focaccia" - la fragranza si infilava dal forno direttamente nella nostra casa attraverso le scale e i muri innalzandosi alla vista su Fiesole - e sul loro viso ho visto dipingersi un dolore.
Il momento è molto forte e forse nessuno di noi tre lo comprende.

Le prime tre giornate sono trascorse fra l'entusiasmo di ritrovare un certo pane, un certo sciroppo, un certo parco, la biondissima amichetta Marta, gli appartamenti con i Dielen che gemono sotto i piedi, le case di Kreuzberg, le capre placide nei parchi cittadini, e il riaffiorare di una mancanza di significato profondo, di un'aria che sia casa.
Ci vuole tempo.

Non ho ancora iscritto i bambini a scuola, non li mando subito, mi hanno chiesto di potersi prima ambientare, hanno molta paura per via della lingua. Oggi hanno ricucito la memoria con alcuni luoghi, mio figlio si è rotolato giù dalle collinette del Viktoriapark come faceva da bambino sulla neve, e pareva beato, come se contemplasse un’emozione piccola e nascosta, una fiammella. Entrambi hanno cominciato a rispondere “ja” e “nein” alla mia amica tedesca; soprattutto la bambina sfoggiava un precoce orgoglio. So già in quale momento e in quale occasione ritroveranno familiarità con la lingua, e cominceranno a escludermi dalle loro conversazioni e si trasformeranno sotto i miei occhi, e non riconosceranno me e la mia idea di architettare per loro un’aura assolata e mite di bambini italiani, verdoline radici di mandorletti bianchi fioriti.

Mi sento molto lontana e sento la mia famiglia come separata, non riesco più a provare un’emozione prossima per mia gemella incinta, e per lo stato di mio padre, che ho lasciato affaticato nel fisico e nel morale, per mia madre, che non poteva credere che io me ne andassi di nuovo, di punto in bianco, e per mia sorella grande, che ha i nipotini che le crescono lontani. Spero che questa interruzione di trasmissioni emotive sia un banale anestetico che svanirà fra qualche settimana.

Non c’è conclusione a questa narrazione. Ci vuole tempo.

giovedì 1 agosto 2013

Uomini

3 febbraio
Cara Amica,

ieri ero piena di tossine. La mia mente passava in rassegna pensieri di bassissimo livello, uno dietro l’altro, attuali, passati e futuri. La rozzezza delle donne sgraziate, che camminando oscillano da un lato all'altro. Gli uomini che, ancora non vecchi, tuttavia rinunciano all'uso muscolare, e per sedersi si lasciano cadere in poltrona come sacchi. L’odore di rossetto dozzinale, che si attacca all'alito. E poi sempre più giù, il costo dell’affitto, il costo della mensa scolastica, il costo del pane, i campi di lavoro, le torture nel mondo.
Ho dovuto dire due Padrenostro per fermare la mente, snocciolandoli come farebbe un tassista arabo in pausa, come un mantra o una formula magica. E improvvisamente sono uscita dal girone infernale della mente. Per quanto denso sia l’umore, basta inserire una piccolissima variazione al margine del sistema perché esso cambi - credo sia la legge dei quanti.

P.S. Guarda che brava amica sono, in tutte queste divagazioni non ti chiedo mai che combinate tu e il signor Idraulico...


17 febbraio

Cara Amica,
la ricorrenza del giorno della mia nascita non mi ha risparmiato una lezione fastidiosa e pungente sulla stupidità degli uomini.
Vivere a Firenze può avere dei risvolti spiacevolissimi. Si ripropongono tutti una visita, umani e subumani. Ma questa visita proprio nel week-end del mio compleanno è stata una vera disdetta.
Non posso reggere un minuto di più il mio ospite brianzolo. Da quando è arrivato ha perseguito il saccheggio delle mie cose e della mia pazienza: ha fatto le fotografie in casa, come se fossimo in un museo, al soffitto e dal balcone, e siccome era per la prima volta a Firenze, è voluto essere portato in giro da una parte all'altra, chiedendo già di Palazzo Vecchio mentre si era ancora a Santa Croce, e inondandomi con la sua stupidità, espressa in odiosissime domande da provinciale e in osservazioni di questo calibro: "Che bello qui a Piazzale Michelangelo: sembra Posillipo!" (sic). E oltre a questo, il nostro campione esclama in continuazione "Ola Lola!", e chiosa ogni punto con un ritornello pubblicitario anni '80, come se fosse scemo, intendo più di quel che è. Suppongo che non occorra specificare il suo aspetto fisico da rana e la profonda penetrazione della bassa cultura televisiva nel suo linguaggio. Un’inondazione di stupidità che si infiltra nelle mie sacre sinapsi pari a umidità nei muri di palazzi preziosi. Il rene destro è tornato a farmi male, come sempre quando ho accanto un essere maschile saccheggiatore. Di sicuro mi verrà la renella.
Ieri il degnissimo ospite si è infilato nel mio divano letto, sul quale mi sono offerta di dormire lasciandogli la mia stanza (un errore che tu non avresti mai fatto), per gustarsi il festival di Sanremo a cui non poteva rinunciare, sulle mie lenzuola e pure sul mio cuscino, dopo essersi manifestato senza pudore nel suo pigiama con grosse stampe ovine da dodicenne. Appena andrà via (ha il treno alle 18 di domenica e starà qui sino all'ultimo secondo: l’intero fine-settimana guastato) laverò tutto, accenderò l’incenso e spalancherò le finestre, dopodiché stapperò lo spumante per festeggiarmi (finalmente da sola). 


23 marzo

Cara,
penso che metterò un veto agli ospiti maschi, se non accompagnati da mogli.
Di H. mi sconvolge la presunzione delle aspettative. Non ci vediamo da un anno dopo esserci salutati da amici, tempo nel quale ci siamo scritti pochissimo; lui si invita a Firenze, arriva qui alle dieci di sera, mentre io metto a letto i bambini, sono stanca e chiedo una serata pacifica, invece lui avanza certe pretese. Ma insomma! Mi piaceva l’idea di avere un ospite, di bere un bicchiere e di dare accoglienza
: no, non è consentito sperare in una placida serata con un camerata.
Buonanotte amica mia. Io non credo riuscirò a dormire con l'invasore: mi toccherà mettermi di sentinella.


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Cara, non posso reggere due proposte di matrimonio in sei mesi. Il vedovo in autunno e lo pseudo-intellettuale in primavera. Come un gallo, un pavone o un tacchino (a tua scelta), H. mi sta parlando da tre ore dei suoi lavori, dei suoi progetti e dei suoi soldi. Gli uomini hanno un continuo bisogno di essere guardati e ascoltati. Non so come facciano ad avere sempre i lavori più belli e meglio pagati.


Amica:
Stasera R., il responsabile, mi ha salutata con trasporto lirico: sono inorridita. Ha detto che ha un sentimento poetico nei miei confronti e che lo vuole esprimere. Gli ho chiesto di attenersi alla tradizione giapponese, se proprio deve: sono sufficienti due parole per fare una poesia, la leggerò con piacere domani.


Ah, cara amica, anche tu dunque sei sotto assedio maschile. Che bella risposta hai dato al poeta!
Quanto importuni gli uomini!
Oggi è stata dura, H. mi metteva un braccio sulle spalle e diceva “peccato che non siamo stati un po’ intimi”. Dio, vorrei non essere stata educata alla cortesia. Una bella risata in faccia se la sarebbe meritata. Questi piccoli uomini annoiati di sé, sulla soglia della senilità, desiderosi di carne giovane, o di grembi fruttuosi di tardive consolazioni, stanchi della loro stessa compagnia e di un certo modesto successo, che si mettono a importunare e ammansire le fragili donne in difficoltà, fiutando la bestiola pronta a cedere per necessità... Basta, sono discorsi antichi, odiosi.


Amica:
Hanno idea, poveretti, del tedio che provocano, specie gli intellettuali?


24 marzo

H. è partito alle 14, senza risparmiarsi baci e abbracci. Mi ha detto che gli sono sembrata molto chiusa e mi ha chiesto se lui mi sia venuto troppo vicino. Gli ho detto “Sì”. Sono seguiti patetici aggiustamenti decadentisti. Mia cara amica, se solo gli uomini fossero più onesti! Molti di loro sono abilissimi calcolatori: perché non ammetterlo? Quando pensano a voce alta... miseri, scoprono le carte senza neppure accorgersene. 


13 giugno

L'amico germanico, classe '55, è ripartito alla carica con un invito a fare una vacanza in campeggio, a suo totale carico, ha detto. Intanto però stamattina mi ha spedito un suo testo di due pagine fitte, in tedesco, dicendo che io sono sicuramente più brava a tradurlo e che quindi è meglio che lo traduca io. Visto che è il suo discorso, per la sua gloria, e per i suoi guadagni ticinesi, gli ho fatto intendere che non vi sarei riuscita. Ho colto l’occasione per commentare l’offerta di viaggio in campeggio a Chioggia in una tenda sola - una gabbia sprofondata nel buio e colma del suo russare. Gli ho detto che un tempo gli uomini facevano dei regali e che le donne senza dote ricambiavano con dei servigi, ma che non siamo più a quell'epoca.
Mi sconvolge la sua totale incapacità di capire che io non cerco un uomo che paghi per me, un tutore. C'è davvero in me qualcosa di sbagliato? Pecco d'orgoglio? Questi preziosi uomini che ammirano la mia mente non fanno che ripetermi che essa ha bisogno di una cornice, di qualcuno che offra il piano materiale su cui possa espandersi. Mentitori. La verità è che cercano una mente di contorno al loro piano materiale. Si limitano a considerarmi un abbellimento per la loro routine. Quanto al prezzo di questo abbellimento, sta' certa che metterebbero sulla bilancia pure le briciole di pane!


Amica:
Buongiorno Cinzia, per fortuna non perdi il tuo buonumore! Scusa il ritardo ma non ho a disposizione il computer che è in riparazione. Spero che me lo riportino domani. Ho preso in prestito quello del mio collega: il responsabile è appoggiato al catafalco della stampante e mi guarda.
Sono profondamente inquieta. A peggiorare le mie sensazioni i miasmi che emette la mia casa. Adesso le esalazioni provengono anche dal tubo del bagno nella camera. Molto ironicamente c'è il signor Idraulico per questo. Verrà venerdì a capire insieme a me di cosa si tratta.
Baci


Scusa, ma mentre mi raccontavi dell’ispezione al tubo che dovete fare insieme, mi sono venute in mente un sacco di immagini interessanti…


Amica:
Impertinente!


1 luglio

Stanotte ho fatto un sogno intenso, era una narrazione filmica complessa, in cui ero molto coinvolta, serrata in un'angoscia che ancora adesso punge. Purtroppo non ricordo quasi più niente. La sostanza era che dalle stelle avevamo ricevuto una minaccia. Alcuni di noi sarebbero stati presi o uccisi, il criterio era non avere paura. C’erano delle presenze minacciose, e io e mio figlio eravamo una chiave importante. Mio figlio aveva molta paura, ma alla fine io scoprivo, pur continuando a provare angoscia, che la minaccia era tutto un bluff. Vedevo chiaramente le stelle, il cielo notturno, la minaccia incombente dalla imperscrutabile volta. 

Ah, Amica, è una persecuzione, non ne esco.
Un mare di inutilità è nel mio passato e al mio orizzonte. M. mi parlava per ore dei film che lui considerava dei capolavori assoluti, i film di serie B che amava così tanto (forse perché ritrovava una parte di sé in quei patetici personaggi della piccola Italia). Oggi G., pensando forse di allettarmi, mi ha detto che se stessimo insieme potrei accompagnarlo tutte le volte alle degustazioni del suo corso da sommelier. Possibile che davvero gli uomini pensino che noi ci consumiamo nel desiderio di accompagnarli, seguirli, ascoltarli, assecondarli nei gusti e ammirarli?
Quante donne hanno consumato la vita in questo tedio!


12 agosto

Amica mia,
ormai credo di aver capito che l’innamoramento è solo una strategia di incretinimento per abbassare le difese, anzi, proprio per “cascare”, come dicono i francesi, perdere i sensi, e cioè il buon senso, allo scopo di farsi come vapore acqueo per infilarsi nei pori della coscienza altrui. Credo che l’innamoramento non abbia altra funzione che questa penetrazione a fini squisitamente didattici. Al risveglio però, in carne e ossa e in stato solido, non è affatto facile tornare indietro, e io mi sono così tanto stancata di questo metodo di apprendimento sempre troppo vicino alla perdita di me che ho deciso di pietrificarmi e basta.
Insomma, tutta questa premessa sui pori e i vapori è per dirti che ho deciso di stare alla larga da qualsiasi spasimante. Ognuno a suo modo, i taccagni tedeschi e i campioni meridionali, sono bestie da zoo. Ti ricordi il vedovo, che aveva ancora tutte le cose della moglie congelate al loro posto e che dormiva su un materasso così nuovo e meraviglioso che dopo tre anni era ancora avvolto nel cellophane? Ah, lui era il campione dei campioni. Cominciò un giorno dicendomi, fingendo di non dar peso alla frase gettata lì, “Ma tu non ti dipingi mai le unghie? A me piacciono le donne con lo smalto alle unghie”. Cara, se mi conosci sai che quella frase è stata la sua condanna definitiva. Tale frase veniva però a coronamento di una lunga sequenza di considerazioni che hanno confermato giorno dopo giorno il suo bisogno di una compagna-soprammobile in tutto corrispondente al suo modello. Con enorme fastidio una volta mi lasciai convincere ad acconciarmi i capelli ricci (ero ancora allo stato di vapore acqueo), che mi stanno malissimo, e anche in quell'occasione con la sua arte nel convincimento aveva dichiarato: “A me piacciono le donne con i capelli ricci” (la moglie ovviamente li aveva così). 
Se la sera mi dilungavo a leggere un libro anziché guardare lui, metteva il muso. Perché subire un tale nevrotico narcisista, mi chiederai? Perché è sempre solo una frase, un unico specialissimo momento di verità che apre il varco nella coscienza, che svela l’imbroglio: prima di quella frase, una parte disfunzionale di noi ricompone il quadro in maniera che sia sempre accettabile. Nel mio caso è stata la banalissima domanda sulle unghie: in quel momento, ho capito che non c'era traccia di me in quella storia. Comincia poi la pars destruens, in cui la persona dominante viene vista per quel che è. Lui, il campione meridionale, nei momenti di rilassamento usava chiudere le spalle a mo’ di coccola e toccarsi le parti basse (nota bene, senza che ne fosse consapevole) con un pollice che restava più scoperto e più attivo fra le dieci dita messe in mezzo alle gambe. Quella ricerca di calore infantile era talmente odiosa che mi alzavo e lasciavo la stanza. Un altro incubo era la mania di doversi cambiare appena rientrava, per mettersi, appunto, “le robe di casa”, secondo, credo, una rigida tradizione della madre. Oh, come vedevo bene che da piccolo era stato il bravo bambino che ubbidiva sempre! E anche adesso, a quasi cinquant'anni, replicava i gesti allora approvati, seguiva la procedura delle cose fatte bene. Dio, non potevo più sopportare quella tuta da casa e lo spettro della moglie e della madre ovunque andassi. Devo dirti però che dopo lo scuotimento della coscienza, tutto diventa molto divertente: non siamo più tenute legate per il collo e possiamo goderci lo spettacolo della fine. Ti ricordi quando quella sera eravamo io e te al telefono e lui tentava ripetutamente di chiamarmi? Per la frustrazione mi mandò un messaggio con il testo “Vergognati!”. Quella sera mi rotolai sul letto dalle risate. Com'era sempre più chiaro il quadro di un manipolatore affettivo che non accetta che la compagna abbia altri affetti concorrenti! Dio, quanti disastri fanno le madri, quanto antiche sono le origini di questi disturbi. Il male peggiore, però, superiore al cambio compulsivo e al controllo e alla manipolazione, consisteva nel fatto che lui era un “comunicatore”, cioè un misero venditore con la cravatta. Nelle nostre conversazioni, usava le stesse tecniche che con il suo team di assicuratori: mi lasciava un’apparenza di spazio di contrapposizione, che accoglieva con un sorrisetto commiserevole, e concludeva il suo repertorio di mosse per fissare con sicumera la sua ragione.
La sua unica ragione, però, stava nel fatto che lui aveva i soldi, io no. La condizione delle donne non più sposate, e con difficoltà economiche, è delicatissima: è molto facile passare sotto una tutela maschile cercando di tamponare l’apprensione che si prova, soprattutto per i propri figli.
Ma quella sera che mi sono rotolata sul letto per le risate, io ero l'insolente guerriera che aveva spezzato le corde e aveva bruciato la terra dietro di sé.


22 settembre

Cara Amica, oggi è sabato, spero che tu possa andare al mare, a settembre la baia deve essere splendida, rilucente, e ripulita dopo gli eccessi della stagione estiva.
Ieri ho fatto ancora la spesa alle 23.30, ho cucinato per Nawroz, visto che mi ospita, ma lui non è rientrato. Quasi senza mangiare mi sono buttata a letto, vestita, avevo freddo, ieri è piovuto e sono stata tutto il giorno in giro con le scarpe bagnate, e gli internet-point qui sono orribili, fumosi, insomma oggi mi sono svegliata dopo mezzogiorno e non riuscivo ad alzarmi. Ho appena visto che c'è il sole, ora sono sulla tastiera araba di Nawroz e ti mando i miei saluti affettuosi da questo incubo incolore. Glenn Gould amava il grigio, come gli era possibile affermarlo?
Tanto per aggiornarti, due sere fa il tipo iracheno del couchsurfing ha fatto il gattone. Stavamo sul divano (che sarebbe il mio letto in questi giorni) a parlare delle guerre, dei suoi giorni in gattabuia in Iran, degli attacchi ripetuti, del padre comunista con una libreria sconfinata, e di quanto sia importante per lui, artista, avere una nuova vita qui a Berlino e godervi una grande libertà. Tuttavia, a parlare del suo paese, Nawroz si è immalinconito, io ho approfondito le sue pene di esule e lui con gli occhi liquidi ha cominciato a chiedermi se non potessi abbracciarlo. Purtroppo, non si è accontentato del primo no e mi è toccato essere dura e chiedergli se non fosse meglio che io andassi via. Doveva essersi fumato qualcosa. Dio, quanto dovranno ancora evolvere gli uomini perché non abbiano più bisogno di un corpo altrui - o del proprio - per sentire se stessi intimamente. 
Devo forse citare per completezza gli uomini che, per il bisogno di confermare il proprio perimetro, mentre parlano s'infilano un'unghia fra i denti o si corteggiano le nari o si reggono il mento accarezzandosi di tanto in tanto il labbro inferiore con un dito? Ho detto abbastanza!

Forse c'è solo una grande solitudine che preme contro quel fragile perimetro.

Ti immagino al mare, sei proprio bella!

  
Ottobre, un giorno come un altro

Cara, sono stanca. L'operatore video con cui avevo iniziato a comporre interviste e servizi, con mio grande gaudio per le ore di conferenze stampa su mostre e nuovi cataloghi, si è rivelato un degno esponente del suo genere, il classico maschio che usa il minimo potere posseduto, l'allusione a ipotesi di collaborazione, come carota sul bastone per infilare le mani nelle mutandine. Fa molto male quando si scopre che il lavoro di corteggiamento dell'intelligenza femminile ha mire più basse. Così ho perso anche questa possibilità di espansione, e più semplicemente, di lavoro: stavolta però l'ho insultato, perché stavamo procedendo bene con i pezzi, non c'era alcun motivo per presentarsi a casa mia con la scusa di lavorare all'intervista per poi stendermi sul divano infocandosi nel cercarmi nell'intimo. Io credo che verrà un tempo in cui l'uomo e la donna, superando il primitivo posizionamento di genere, saranno uniti nella solidarietà come fratello e sorella, partecipando a un più alto progetto umano. Amica mia, deve essere così. Non posso più reggere questa specie a capo basso che becca a terra fra sterco e piume di galletti.
Se poi il galletto in questione è tanto obeso da emettere dei grugniti ad ogni movimento più ampio, spavaldo nonostante la sua oscenità, je meurs! 



29 dicembre

Amica cara, credo che sarà un altro anno difficile.
Per la prima volta non ho alcun buon sentimento per il Capodanno, per tutti quei mesi nuovi messi lì davanti... Ma resta un piccolo fatto, una semplice base scarna: noi ci siamo.
Dopo tutte le tribolazioni affettive inutili, dispersive, che non ho voluto o almeno che non inteso così mediocri, ho capito che non sopporto addosso altro odore che non sia il mio. Sono stanca. Ho lottato per i miei figli, per trovare un posto pacifico, per resistere a tutti questi attacchi che mi hanno guastata. Ti abbraccio, senza gioia, con profonda amicizia.


Amica:
Cara, ti sei spinta molto avanti sul piano della comprensione umana, ma non è giusto che tu superi certi limiti. Non so come dirti, viene dalla mia esperienza prima di tutto, se troppe volte superi quel segno qualcosa si incrina per sempre. Mantieniti intatta per te e per i tuoi figli.


domenica 14 luglio 2013

La distanza

Se solo se ne andassero, se lasciassero riposare qualche minuto questi luoghi dalla loro presenza, se portassero via le loro parole, le loro dedizioni e gli strascichi dei pensieri che ho uditi per trent'anni, se solo spegnessero questo disturbo imperituro che alimenta cattivi odori come il motore del chiosco ambulante in piazza.
Se mi lasciassero posare la penna sul foglio e svuotare i loro echi, se mi permettessero solo per qualche istante di allargarmi nella mia urgenza, se mi dessero la loro assenza, lo spazio fermo e bianco per scrivere.

Per amare ci vuole distanza. Per ricordare ci vuole distanza. Ci vuole distanza anche per simulare la nostalgia, per montare un piccolo dramma naïv.
Forse pure la vicinanza a Dio mi sarà insopportabile da morta, e continuerò a reincarnarmi e a separarmi.

Lasciatemi nel mio silenzio, così urgente di parole mie.

mercoledì 10 luglio 2013

Come era la Terra

Era la Terra un mostro di squame e fauci,
minaccioso di lava e cavalli imbizzarriti
sullo sterminato suolo ora piatto, ora quadrato
sprofondato in un orrido pozzo di fosse e detriti.

Sommi geni lo concepirono pianeta
di  roccia con forma quasi a sfera.
Era la Terra divino capolavoro
custodito nell'oro di solare moneta.

Corpo d'acqua e continenti contrapposti
su due fronti di vite aliene una all'altra, guerra
di marinai sbattuti che ai primi orizzonti
fermi gridavano a cuore aperto "Terra, terra!".

Terra mineraria, gassosa, cava
di tufo e granito, di polvere e argento,
brillante di sale e vasta di praterie.
Terra di sciamani che divinavano il vento.

Uomini di terracotta la smuovevano,
donne di pietra la lievitavano come pane,
soffiavano sul cotone e lo intrecciavano in centrini.
Terra di volti carsici e corallini.

Era la Terra una biglia vacua e liquida,
palla di vetro con dentro per gioco
balene fluttuanti sotto la neve.
Ma venne una pioggia di fuoco:

tremò la Terra con i suoi giganti
i calamari e i vulcani, i bambini
annegarono con le madri urlanti
e i tiranni insieme ai loro soldatini.

Cascò lieve per miglia e miglia
nell'abisso girando in tondo
l'astro dissolto chiamato Mondo.

Era la Terra una meraviglia.

domenica 23 giugno 2013

La succursale italiana


Tempo fa ho abitato a Berlino-Kreuzkölln.

Mi ricordo molto bene di quel periodo. Ho una memoria emotiva precisa collegata alla libertà di essere e fare come più mi piaceva, di bere una birra sulla spiaggia della Badeschiff, di fare la nudista allo Schlachtensee, di provare nuove pizzerie con i miei amici italiani, di stare seduta in mezzo ai tedeschi nel bar Ringo sotto casa a seguire l’amatissimo serial TV della domenica sera alle 20.15, senza sentirmi né estranea né coinvolta – uno stato perfetto che richiede un'esatta misura di distanza. Ho però anche una memoria “sotterranea” che è come lo sfondo di un incubo, un sottopassaggio buio in cui transito senza vedere la luce, e mi trovo lì perché mi ci sono ficcata da sola, credendo di poter indossare un abito diverso senza procurarmi lesioni interne, come se un Paese straniero si potesse abitare mantenendo la stessa foto sulla carta d’identità.
                           
Di quel periodo ricordo le parole dei bambini della comunità italo-tedesca, la lingua del gioco, la lingua dei rituali. Sintassi tedesca e parole italiane, verbi italiani e coniugazioni tedesche, parole del cibo in italiano, istruzioni e ordini in tedesco: - Zähne putzen! Ricordo che pensavo a questi ibridi, bambini ibridi, cultura ibrida, lingua sporca. Pensavo alla lingua da salvare. A me in quegli inverni lunghi non venivano più parole belle, parole importanti, parole piene e sonore, non mi veniva più un verso di poesia.
Oggi penso che allora sbagliavo nel considerare quei bambini degli ibridi, non allevati nella cultura italiana e non propriamente nativi della cultura tedesca. A qualche anno di distanza, posso dire questo: quella generazione “è” un fenomeno specifico, non esprime una mancanza da una parte e una lacuna dall’altra, ma una dimensione demografica nuova, in sé compiuta, originale. Ho cominciato a pensare che quei giochi linguistici non siano effetto di interferenza, di disordine, ma di una competenza piena. Quei bambini sono nati in una zona comune fra due culture, dai confini sfumati e integrati, e sono un popolo nuovo.
                               
Ripenso a molte altre cose di quel periodo. Penso che alcuni italiani lasciano le Langhe, il Tarantino, le Isole con un rancore profondo verso l’immobile orizzonte, e partono credendo che l’Italia sia quella, l’Italia dell’individualismo e delle donne sui tacchi 12, delle passeggiate domenicali e degli annunci mortuari, senza sapere che esistono altri civilissimi Comuni dove le mamme condividono, i bambini hanno indumenti comodi o di seconda mano che possono sporcare, le scuole coinvolgono i genitori in progetti partecipativi, nei parchi ci sono bar informali e biblioteche che propongono letture all’aperto, gli artisti sperimentano e modificano il territorio urbano. Certo, sono movimenti che serpeggiano e sfarfalleggiano su uno sfondo dolcissimo e grottesco, lo scenario di un paese in miniatura nelle gallerie di un luna park.
Penso a quegli Italiani all'estero che sulle pagine social parlano solo di politica italiana, come se il filo con il loro Paese non si fosse mai interrotto, come se il loro centro d’interesse fosse rimasto lì. Penso a quegli Italiani che si affannano a ricostruire, ingrediente per ingrediente, molecola per molecola, i sapori della propria cucina, facendo finta che sia possibile trasferire gli esatti dati sensoriali, il carsico ed il salmastro. Percepisce la nazione Italia la devozione dei suoi fuoriusciti? Sa il Belpaese dalla luce dorata e violetta, terra perfetta per le vacanze, quanto fedeli gli siano queste forze tenaci e vitali che impiegano il loro ingegno per portare avanti un Paese altro, a cui consegnano i propri figli? Una fedeltà sentimentale, conflittuale, e anche astratta: astratta perché, quando si è all’estero, la percezione del proprio Paese non corrisponde alla fluida realtà, non si aggiorna.
      
Oggi mi trovo in vacanza al Sud, sullo Jonio, con i sensi spalancati: luce ampia e assoluta, aria sottile e ventosa, mare cristallino; dune. Appena m’immergo nel sole della Magna Grecia, viene a galla la ragazza che ero. Da questo perfetto avamposto, a quattordici anni, vigilavo sull’orizzonte, spiegando le mie vele verso Nord, verso le case e le cattedrali con i tetti a punta. Per la mia sensibilità acerba, Rotterdam o Amburgo non facevano differenza, erano un'altra densità e ciò bastava. Trascorrevo ore a leggere i romantici tedeschi, ad ascoltare la Winterreise, suonavo Beethoven, leggevo Thomas Mann. Non c’era molto altro da fare. Da qui, tutto era possibile. Sognavo di avere in bocca quella lingua, di andare nelle università tedesche, di vivere gli inverni nordeuropei.
Vent'anni dopo, da questo stesso lembo di terra, quei sogni, tutti avveratisi, hanno l'antico sapore letterario, l’aperta malinconia delle terze schubertiane, la felicità di meridiani e paralleli da solcare. Credo che sia nella morfologia dello sguardo, quando si sta su uno scoglio come gli antichi Greci, ricevere dall’orizzonte l'invito a partire, con un carico di idee da barattare. Dolce è ancora lo slancio a migrare, da questa piazzuola di sosta bianca e salmastra, terragna, verso il Paese dell’Idealismo. Se però mi distraggo dal sogno e mi ripenso a Kottbusser Damm, nel lungo corso di negozi e Imbiss senza tracce di sentimento estetico, questa immagine da sola come un sale in una reazione chimica fa precipitare il desiderio.
      
Per tornare a vivere a Berlino, dovrei maturare aspettative più spicciole e non lasciarmi disturbare dalle minime dissonanze. I tedeschi sono avari? A volte, è vero, si ha la sensazione di non valere abbastanza per meritarsi un pasto generoso quando si è loro ospiti. Ricordo che una volta un'amica tedesca mi sgridò seriamente, perché alla tavola a cui io l'avevo invitata, a suo dire la molteplice offerta di cibarie confondeva le idee e le faceva perdere l'appetito. Comunque, sono un popolo economo e sensato, rispetto ai consumatori dai carrelli stracolmi di merci destinate a scadere. I tedeschi hanno una visione stereotipata degli italiani? Spesso, è vero, è difficile non irritarsi al loro drammatico gesticolare mentre parlano di pasta e “bell’Italia”, come se questi concetti non potessero sussistere senza sottotitoli mimati. Sono un popolo solerte nel cogliere in fallo gli altri membri della comunità e resistenti alla simpatia umana? Può essere, ma finalmente qualcuno che sa dove sia la verità, che sa come dare una chiara struttura. Le tedesche prendono sempre in giro noi italiane perché ci teniamo ad avere i capelli in ordine e stirati? Certo, per loro siamo tutte uniformate e conformate, vogliamo mettere i capelli per metà neri e per metà rosa delle cassiere di Edeka. I tedeschi però ci amano profondamente? Sicuro, sai che piacere essere presi di mira dai fan del Chianti che appena scoprono che vivi a Firenze hanno quasi un orgasmo.
   
No, se dovessi tornare a Berlino, non mi lascerei distogliere dalle irritazioni e punterei su un progetto personale, sulla fiduciosa prospettiva di poter contribuire ad una società più equilibrata, sostenendo per esempio le qualità di grazia e dolcezza del femminile. Da tempo in me gli sciocchi attriti iniziali sono stati lubrificati, e a lamentarsi delle provinciali quisquilie si fa la figura dei livornesi che dicono male dei pisani. L’asse di trasloco Roma-Berlino è ridicolo rispetto ai tentativi extracontinentali di svolta biografica. Il mondo è grande e terribile, diceva Gramsci, e ormai Berlino è una succursale italiana.