domenica 3 maggio 2015

La Casa



1



Aspetto da molti inverni. Aspetto e non succede nulla.
Un lunghissimo tempo è trascorso. Non ricordo bene gli eventi e i maltrattamenti, o forse ricordo troppo e divento vecchia. Da molte stagioni sono sola. Non che mi spettasse una sorte diversa, ma questo vuoto assomiglia alla morte, e tuttavia vivo.

Mi hanno messa qui tanto tempo fa. Allora era diverso. Molte attività si svolgevano nei campi attorno. C’erano buoi e arnesi da campagna, parecchi uomini venivano dalla Signora a portare le insalate o le patate, e da marzo in poi i rumori erano sempre presenti – a volte severi, secchi, altre volte simili a campane.

C’erano anche le feste. Non spesso, ma nel tempo del raccolto mi potevo aspettare molta gente attorno, vapori, pietanze, una lunga preparazione, gesti ripetuti, suoni sovrapposti. Le porte sbattevano e questa era un’esperienza notevole. La Signora faceva lavare tutto, le finestre, le tovaglie, le coperte; faceva spostare la credenza in cucina, allora la luce esplorava gli angoli nudi nella stanza. Il sabato di mercato acquistava una nuova porcellana a cui dava sempre il posto d'onore. La Signora era indaffarata, e si curava più del solito dei centrini e delle tende. Questo mi piaceva particolarmente: erano tessuti splendidi, bianchi e turgidi, ricamati finemente. C’erano in quei giorni dei riflessi dorati nel cielo: era la stagione succosa in cui la terra si spreme per dare le riserve per l’inverno, e l’aria si incendia come un falò di ringraziamento. Arrivava poi il primo freddo: lo si poteva sentire nei vetri delle finestre, che diventavano a sera più rigidi e serrati.   

La serratura del portone d’ingresso era di ferro, molto pesante, solida. Prima che arrivasse la notte veniva fatta scorrere attraverso il legno: ricordo ancora quel suono e l’effetto della materia. Ora la serratura è stata sostituita e questa privazione cambia molte cose. Nessuno però ne comprende gli effetti, tranne me.

Di un elemento particolare avevo terrore. La Signora amava accendere candele in ogni stanza. Le pareti si animavano d’ombre e scendeva un silenzio denso, religioso. La luce riscaldava l’interno, come se dopo tutta l’attività fuori bisognasse risolversi a tornare dentro, a raccogliersi. Ma io avevo paura del fuoco. Una volta la minaccia ha preso vita, il fuoco è stato scaltro, vorace e io ho temuto davvero che stesse per divorare tutto. A volte la Signora dimenticava quale forza possegga una fiamma.

Qualcosa è successo ad un certo punto. Devono essere cambiate le condizioni, perché da una certa epoca in poi la Signora ha cominciato a comportarsi stranamente, a parlare con degli individui che venivano di giorno, e una domenica dopo la messa è tornata e non era la stessa persona, ha cominciato ad aprire i bauli, a spostare le cose, a sistemare alcuni oggetti in un angolo.

Da allora qui attorno tutto ha preso un altro corso. Se ne sono andati.

All’inizio credevo che sarebbero stati via qualche tempo. Le candele attendevano ritte nei candelabri e le tendine residue erano inattive e incredule, appese fra dentro e fuori. Dopo un certo tempo ho cominciato ad accorgermi degli odori. Senza nuovi passaggi di persone, animali e pietanze, potevo concentrarmi sugli odori permanenti, sulla memoria delle ceneri nel camino, dei sughi sulla stufa, della polvere sulla cornice dei quadri. Anche adesso se mi concentro sui cuscini, ne avverto la memoria acre, pungente, e insieme dolce, di nuca e di lacrime. In quei tempi di solitudine, mi pareva persino che le marmellate nei vasetti rilasciassero un’allegra fragranza di fragole. Sarà perché nei giorni di preparazione, la Signora cantava sempre. Il legno ne ha uno lungo, vivo: è l’odore più solido e protettivo, e si irradia dalle assi del pavimento. Era una splendida quercia e vive ancora in questa forma. I muri invece sono fragili. Deve essere per via dell’intima essenza porosa. Si fanno attraversare dai vapori e dal freddo e ne prendono l’incostanza.    

Ho atteso per molte stagioni che venisse qualcuno da accogliere.
Nessuno è tornato, da lunghissimo tempo nessuno è più venuto. Un giorno hanno cambiato la serratura, hanno finito il lavoro fuori e sono andati. Non si sono preoccupati di venire a vedermi.
Poi non è successo più niente. Il freddo si accostava ai muri, penetrava dal suolo capillarmente. La stagione del raccolto volgeva al termine, ma nessuno aveva più seminato. I campi restavano sterili delle patate che una volta avevano custodito. Ogni tanto si avvicinava una famiglia di ricci. Sono bestiole delicatissime, giocose. Hanno molti nemici e i piccoli devono apprendere ad essere guardinghi, ma la loro natura è pacifica, estroversa. Sono stati disegnati con un sorriso che permane nonostante la fragilità della loro esistenza. Questa famigliola di ricci veniva con le prime luci, attraversava con rapido passo il campo abbandonato raccogliendo la rugiada e l’innocenza precoce della terra. Non so bene cosa cercassero. Poi non sono più venuti.  
Solo gli uccelli continuano a farsi vedere, ogni stagione diversi stormi, a ogni ora diversi esemplari. So perché vengono.

Qui tutto è cambiato. Il silenzio ha preso il posto delle voci. La terra si è fermata, riposa pigramente. Da là dentro vengono fuori radici, erbe, germogli, ma hanno un tono differente. Un tempo gli alberi di fronte erano carichi di pere. Ne avvertivo la gialla melodia.
La Signora aveva un luogo preferito. Era una parte lasciata incolta: lì si intrecciavano rovi, denti di leone e fronti di ortica; insetti minuscoli li sorvolavano inebriati (tanto minuscoli che solo con un’estrema concentrazione riconoscevo in quella manifestazione frenetica un capo, un torace, un addome, ali, zampe, bocca e antenne, un apparato digerente, nervoso, circolatorio, respiratorio, secretore, escretore, riproduttivo, dunque esofago e ovario e ano e tutto il resto, anche il cuore, e i desideri vitali). Il disordine di questo luogo era consolatorio: le declinazioni del verde, le forme diversificate, le stratificazioni, gli intrecci e le ramificazioni regnavano di diritto secondo propri comandamenti. La Signora vi si recava spesso, portando talvolta un biglietto ripiegato.

Ora ogni luogo è incolto e desolato.
L’inverno è una lunga prova. Ci sono volte in cui la pioggia cade per tutta la notte, rimbalza nelle pozzanghere, si sfoga in rivoli e impregna la terra. Ne sento gli effetti in ogni fibra per giorni. Il gelo assottiglia i vetri, li indurisce, li tende sino al punto in cui paiono sbriciolarsi. Nessuno viene ad accendere il fuoco, nessuno viene a vedermi e io sto diventando vecchia. Sento le pietre che sono qui dall’inizio della creazione, la loro umidità ascendente, avverto le ragnatele sulle travature, il passaggio d’aria nel camino, e il vuoto del tempo senza voci.





2



Oggi sono venuti. Era una Signora nuova con affianco un Signore.
Ho sentito i passi dal fondo della strada, il movimento dell’erba, i rumori dei corpi. Si sono avvicinati, le voci sono penetrate nei muri esterni, sono risuonate nel grande vuoto di questi anni d’attesa. Hanno manovrato con la serratura, forzando un po’. Poi il portone si è aperto cantando, è entrata un’aria meravigliosa di crochi e ranuncoli, una vibrazione luminosa e dolce! La Signora nuova aveva una voce incantata, entrando in casa ha aumentato la sveltezza dei passi, la quercia delle assi sotto il suo peso ha sbadigliato, si è stirata, e tutti i muri sono rimasti in attesa. Un movimento d’aria improvviso ha attraversato la stanza centrale. La Signora si è girata più volte su se stessa, come una bambola, ma quando ha visto le due grandi finestre crociate che guardano il giardino si è fermata. Il Signore si è avvicinato alle vetrate e ha aperto le ante. Il telaio ha cigolato sommessamente e poi è accaduto che ogni pietra, ogni asse, ogni quadro, ogni bicchiere nella credenza si è orientato a quel fatto nuovo, l’ingresso inatteso di un vento sabbioso e mite. La Signora si è affacciata e ha misurato con lo sguardo il campo attorno, ma poi è rimasta alla finestra in un modo diverso, con le braccia sul telaio come a immaginare il risveglio di un mattino futuro. Anche la mia prima Signora faceva così.
Il Signore ha percorso la stanza centrale e si è spinto nella seconda sala, ha aperto il ripostiglio degli attrezzi, ha provato la serratura dell’accesso al giardino, che è bloccata, ed è salito per le scale dispiegando sotto gli scarponi una polifonia di crepitii e gemiti.
La Signora è rimasta a lungo alla finestra, poi gli è andata dietro misurando i passi. In una delle due camere con i grossi letti in legno hanno parlato sommessamente. Sembravano a disagio, la voce doveva tornare indietro in un modo inaspettato. Poi sono scesi, hanno chiuso la finestra e si sono avviati verso il portone. La Signora si è fermata sulla soglia. Guardando lentamente verso l’interno ha appoggiato una mano sulle pietre: un breve contatto, un sigillo.

Lungo la strada si sono baciati.

Poi per giorni e giorni non sono più tornati.




2016



La Signora è molto agitata. Oggi arrivano gli ospiti.
Sono mesi che vengono preparate le stanze, ordinati mobili, confezionate marmellate, predisposti gli attrezzi nella ex stalla. Il Signore è molto abile in simili lavori: ha lasciato tutto com’era, ma i colori nelle stanze sono diversi, e l’acqua che scorre sotto la sabbia non trova più la strada verso i muri. Ha sistemato anche dei rubinetti esterni, un campo da coltivare, aiuole con erbe aromatiche, e due asini.    
La Signora si muove dentro e fuori come una fata, appende quadri, sistema i fiori, e di tanto in tanto si ferma a guardare il vecchio pianoforte che è tornato in vita. Il grosso cane la segue dappertutto con un gran fiato.

Oggi arrivano i bambini.

Non potevo immaginare che sarei diventata un centro di guarigione per bambini, e che io stessa sarei guarita da così tanto abbandono.

La Signora si gira spesso a guardarmi, e appoggia una mano sulle pietre, come la prima volta. Adesso non penso più così tanto alla mia vecchia Signora. Sento avvicinarsi i bambini, e le rondini stanno tornando.


Io sono la casa.