lunedì 31 gennaio 2011

VOCI - H.

"Io paragono il mio rapporto con l'Italia ad una storia d'amore infelice. Se stai con un uomo colto e bellissimo che continua a trattarti male ed a farti soffrire, a toglierti tutto per anni ed anni, forse è meglio cercare qualcuno di più tranquillo, che ti rispetti e cerchi di renderti felice. Per questo noi stiamo considerando di tornare in Australia. Cosa che non pensavo mai di fare... Chissà come andranno le cose".
 

VOCI - D. e C.

- Sì vediamoci! Io purtroppo mi sposto poco da F. in questo periodo, sia per ragioni lavorative (appunto stiamo aspettando che il progetto possa partire), sia per ragioni finanziarie... tra poco sarò sull'orlo della povertà :-)

- La soglia della povertà, la conosco bene: è uno stato che, se dura poco, può insegnare molto. Ma a lungo andare intristisce. Non ci si può muovere. Non si guardano più le vetrine, né i manufatti dell'uomo, perché non li si può acquistare, e così piano piano anche i vini, i pasticcini in vetrina, gli itinerari di viaggio, le calze di moda, le scarpe in saldo, le locandine del cinema, i libri in promozione, Wagner finalmente al teatro lirico... Si diventa indifferenti a tutto. Ci si indurisce, la giornata diventa senza consolazioni. Si deve restare in casa per non spendere: anche il biglietto della metropolitana diventa una voce di spesa insostenibile. Non si compra più il giornale, non si va alle mostre e naturalmente neanche in pizzeria, si aspetta che qualcuno si accorga dell'indigenza non manifesta e faccia un invito, un regalo. Se si hanno degli spiccioli si compra qualcosa ai bambini, perché loro abbiano ancora un senso di possibilità, di non privazione.
Ecco cosa è la povertà di una trentenne: io l'ho conosciuta quest'anno in Italia.
Se almeno mi trovassi in un posto bello, se almeno la natura mi potesse consolare, con i colori e i profumi; se almeno gli amici fossero più vicini e con loro potessi condividere una spaghettata serale: mi sentirei comunque ricca.


VOCI - O.

"Posso capirti ma non fino in fondo. Non ho figli e quindi i sacrifici e le rinunce riguardano solo me. Da soli è comunque più facile. Hai responsabilità solo verso la tua vita.
Amo questo paese, purtroppo: è questo che mi frega. Gli uomini che ho amato in questi anni, da veri pragmatici, hanno lasciato tutti l'Italia. Io invece sono rimasta a fare l'eroina romantica. Isolata per giunta perché sono poco incline ai compromessi. Nessuno di loro mi ha chiesto di seguirli. Adesso hanno famiglie e vite più o meno serene altrove. Pensano all'Italia, ma il disgusto e la delusione che provano impediscono loro di tornare. Anche a me sembra sempre di provare amori a senso unico e inespressi. Lavoro su me stessa per cercare di non perdere l'equilibrio. Sogno sempre di cadere..."

giovedì 27 gennaio 2011

Alla vigilia dell'occupazione

Nei mesi che precedettero il suo arresto e la deportazione ad Auschwitz, Irène Némirovsky scrisse febbrilmente le prime due parti di un'opera che doveva comporsi di cinque volumi. Quei primi due volumi sono riuniti in Suite francese, che si apre con la fuga in massa dei parigini alla vigilia dell'occupazione.

"Malgrado la stanchezza, la fame, la preoccupazione, Maurice Michaud non si sentiva troppo infelice. Aveva una struttura mentale particolare, non attribuiva molta importanza alla propria persona: non era, ai suoi occhi, quella creatura rara e insostituibile che ogni uomo vede quando pensa a se stesso. Per quei compagni di sventura provava pietà, ma una pietà lucida e fredda. Dopo tutto, pensava, queste grandi migrazioni umane sembrano governate da leggi naturali. Certi periodici spostamenti di massa probabilmente sono necessari alle popolazioni come la transumanza lo è per le greggi. E trovava in questo uno strano conforto. Quella gente intorno a lui credeva che la sorte si accanisse in particolare su di loro, sulla loro disgraziata generazione, ma lui ricordava che gli esodi si erano sempre verificati, in ogni periodo. Quanti uomini erano caduti su quella terra (come su tutte le terre del mondo) piangendo lacrime di sangue, fuggendo il nemico, lasciando città in fiamme, stringendosi al petto i figli..."

Irène Némirovsky, Suite francese
(trad. Laura Frausin Guarino)
Ed. Adelphi

venerdì 14 gennaio 2011

La fontana di Avetrana

Sono l’unica donna su questo pullman dell’Ilva. È l’ultima corsa. Stiamo tutti seduti a distanza, occupiamo lo spazio a file alterne. Questi uomini esausti vanno a casa. Sono caduti nel sonno, uno a uno, senza scambiarsi parola. La fabbrica stanca. A lato scorrono distese buie di ulivi. È immensa la campagna qui, da mare a mare.
Anch’io sono stanca.
A Taranto ho lasciato un amore.

Andavamo ogni pomeriggio al bar sport in piazza Vittorio Veneto, ad Avetrana. La gente del posto ci riconosceva: alla controra noi ci davamo convegno sotto l’ulivo, che occupa una posizione asimmetrica nella piazza. A volte mi è capitato di dover aspettare per un’ora il suo arrivo. La piazza era arroventata, in quella luce agostana. Io e i tre cani randagi del paese stavamo come capre nel sole, con gli occhi inespressivi, annacquati. Allora m’avviavo verso la chiesa, e oltre, verso il torrione, nelle viuzze senza passaggio; da qualche uscio proveniva odore di melanzane fritte, e più spesso di salsa. Le case al meridione sono a volte poco più che garage: con un’apertura al piano della strada e uno sbocco sul retro, poco ventilate, senza tetto, decapitate. In certe ore per le vie non si sentiva anima fiatare. Poi tornavo sotto l’ulivo, nel sole pieno, e lì arrivava lui, ad un certo punto. Se ci ripenso ancora oggi travengo. Quando eravamo a un metro uno dall’altra, mi voltavo verso il bar ed entravo per ordinare la granita al limone, servita ancora in coppa d’acciaio come una volta. Sentivo la felicità riposare nello stomaco. Per qualche minuto non si parlava, credo stessimo entrambi assolutamente contenti. Scherzavamo col proprietario del bar, prima ancora di dirci ciao.
Da Avetrana andavamo dunque al mare e per tutto il pomeriggio si rimaneva così, senza turbamenti. Se ripenso a quei giorni capisco che la felicità era quella totale spensieratezza, la placida inconsapevolezza del tempo, una pia indifferenza verso i piccoli inconvenienti o verso il posto in cui si era. Allora la felicità era quando il mio tarantino mi diceva: "Io sto qua perché stai tu".
Successe un giorno che ad Avetrana trovammo festa grande. Era il 16 agosto. Nella piazza c’erano drappi e festoni nuovi che ornavano il palazzo; a ridosso di questo si arrossavano i tizzoni su cui grigliare e stavano pronte tavolate di pittole e panini. Fu la prima volta che vedemmo donne in giro ad Avetrana. Il bar era avvolto da un’insolita euforia: erano tornati gli emigranti per la festa del paese. La famosa granita al limone richiamava molti avventori e ora, oltre ai frequentatori annuali – vecchietti che giocavano a carte o stavano, con le camicie aperte sul petto, al tavolino, insultando ora uno ora l’altro dei compari – c’erano volti nuovi, forestieri, urbani. Alcuni musicisti provavano sul palco la resa acustica. Persino i tre cani randagi s’animavano alla festa, giravano in cerchio con la bocca larga, contenta. Certamente l’odore della carne alla griglia, il fumo, l’improvvisa vitalità umana li avevano eccitati, facevano giostre e feste d’intorno alla piazza.
Io e il mio tarantino anche allora non ci fermammo per più di un’ora. Il mare era come una necessità. In quella spiaggia, non distante da Campomarino, la poca gente si fermava sino al tramonto; con lo scurirsi dell’aria rimanevamo soli. Arrivavano da lì a poco i pescatori-meditatori: due o forse tre uomini con la canna da pesca, inghiottiti presto dal buio. A volte uno di loro si portava appresso i bambini, e mi compiacevo di una così pura educazione alla poesia, fatta senza parole. In quell’agosto vedemmo spesso spuntare la luna. Era uno spettacolo mirabile. Accadeva d’improvviso che uno di noi due si accorgesse della sfera dorata che saliva dal mare, alla nostra sinistra. Stavamo di tanto in tanto interi minuti senza parlare, concentrati sull’ascesa portentosa di quell’astro che, lentamente, sbiancava.
Allora a volte io gli dicevo d’improvviso, emergendo con la voce dal buio: "Tu … sei una bella cosa."
Facevamo poi l’amore per ore, forasticamente, tagliando fuori dalla coscienza l’idea del tempo e del sonno perduto. Trasalendo coglievamo con un certo stupore il primo chiarore che dilegua la notte, e allora,
improvvisamente riemersi al tempo, ma molli nei nostri dolci e maturi odori, ci rivestivamo disordinatamente, e con l’intenzione degli occhi, in quell’assoluto buio campestre, spingevamo l’automobile verso le prime luci e le prime case di Avetrana, sino alla piazza della fontana, dove un baretto, quasi sempre vuoto, aveva già aperto per il turno più mattiniero.
Me ne andavo, allora, con un pasticciotto caldo nel sacchetto, e già prima di avviare il motore mettevo la radio a tutto volume per rimanere sveglia. La campagna che dovevo attraversare era solitaria e immobile e mi pareva miracoloso che nessun rumore o passaggio umano distraessero il mio stato di intatto benessere.
In quei giorni scoprivo Taranto. Capitava infatti che non ci incontrassimo ad Avetrana, ma che lui mi ospitasse nella sua città. Poteva accadere che io dovessi andare a Montemesola per certi affari, e allora al ritorno mi fermavo a Taranto. In quelle zone, a percorrere la strada di vigneti che conduceva in salita verso il paesino di quattro anime, sempre mi prendeva un incantamento. La vertigine dello spazio aperto, di cui non facevo esperienza da tempo, e così modulato, senza alture a spezzare l’orizzonte, mi portava in una dimensione rallentata, pacifica, dove i sensi si distendevano. Provavo allora un improvviso, dolcissimo addomesticamento a quei luoghi: cadevano le mie resistenze urbane, e nordiche. Pensavo per contrasto alle musiche struggenti del Lohengrin, al Liebestod di Isolde, a certi accordi lunghi e tesi del Ring. Mi sembrava che nessuna ambientazione potesse essere più adatta a inscenare Wagner di quei chiaroscuri assolati, quelle aperte e sensuali, assolute spianate della Magna Grecia, arretrate e mitiche. Qui forse i registi avrebbero dovuto porre Elsa, a cielo aperto, fra i muretti a secco e i campi gialli, le case bianche e improvvise di Martina Franca; qui, in una buca della Valle d’Itria, avrebbe dovuto suonare il suo canto continuo l’orchestra, posta fra pietra e cielo, sotto la luce estrema, vitale e rapace, fatale, del basso Sud.
Da Montemesola, giungendo a Taranto, per pochi istanti mi trovavo sospesa sui due mari: mi pareva da quel ponte di avvistare una città favolosa, sorta su un’isola ionica in un tempo mitico lontano. Altre volte mi capitava di arrivare con il pullman: questo, dopo aver depositato gli uomini dell’Ilva davanti ai maleodoranti, surreali, mostruosi stabilimenti dell’acciaio, mi conduceva al porto, e prima d’arrestarsi al capolinea, voltando, mi permetteva di scorgere in un punto preciso l’isola con la chiesa di San Domenico, le mura, i moli e le vecchie case chiare.
La prima volta che ho visto Taranto vecchia era sera e ho creduto di trovarmi in una città fantasma. Il mio tarantino mi stava affianco e penso che lui guardasse quelle case ferite, abbandonate, puntellate, i balconi ceduti al crollo, le scalette sbucanti in piazzette vuote, le finestre incorniciate di sterpi selvatici attraverso i miei occhi. Era un intero quartiere, o meglio una piccola città, senza colore, senza riconoscimento, priva di attività commerciali e di traffici (se non quelli sotterranei di droga), fuori del tempo. La decadenza delle case, dei palazzi antichi, l’irregolarità dei profili delle abitazioni, che sovrapponeva capitelli a inferriate malferme, monofore ad arcatelle, lesene greche a cornici franate mi sconvolgevano. Dai muri spuntavano piante tenaci, alberelli; era un paesaggio urbano forastico, arcaico, pietroso. Mi chiedevo come si potesse lasciare un simile gioiello all’abbandono: quei bellissimi palazzi rivolti al mare, alle navi, al porto, quelle chiese pronte a salpare! Io credo di aver amato Taranto amando il mio bel tarantino.
Proprio all’ingresso del quartiere isolano, in piazza Fontana, in via Porto, dietro alla graziosa Torre dell’orologio, stavano certe donne al balcone: parlavano fra loro da un caseggiato all’altro, oppure immobili come gechi seguivano in basso gli scarsi traffici di gente, secondo l’abito meridionale di stare alle porte, seduti alle seggiole, alle finestre, nel perimetro esterno delle case, guardando il passaggio dei vicini, aspettando qualche novità, con lo sguardo ovino, che a tratti si fa a punta, critico.
Io amavo tutto questo e immaginavo la mia vita lì, fra quelle strade. Progettavo di prendere due stanze in via Porto, e di aprirne una agli allievi di pianoforte. Volevo suonare a finestre aperte, arpeggiare al mare che s’allargava laggiù in lontananza; e aprire l’altra stanza al mio tarantino, alla sua risata di grotta, muscolare. Con questi respiri lunghi, speranzosi, andavamo dunque a casa sua ad amarci, e nell’amore stavamo ore intere a guardarci, con gli occhi annacquati, rapiti da quegli slanci dei corpi, che da soli si cercavano festosi, gioiosi, tiranni. In quelle ore d’amore lui mi diceva d’improvviso: "Cinziè, sposiamoci!", per poi esplodere
appena un attimo dopo in una risata dissacratoria – cominciavano allora i primi segni di una sua intima contraddizione che mi lasciava nel più cieco disorientamento.
Sempre, dopo quelle notti goliardiche, scendevo al bar sotto casa, con i capelli sparsi, gorgonici, e mi godevo Taranto al risveglio, insieme al forte caffè locale. Lui invece dormiva sino a tardi: rifuggendo le ore di veglia assolate, riusciva ad accorciare il giorno, sembrandogli forse più semplice vivere di notte. Raccoglievo in quei giorni, nei momenti di lucidità che l’anestesia amorosa lasciava manifestarsi, delle impressioni sul suo modo di ritirarsi dalla vita, trattenendo i suoi talenti in periferia. Una volta mi aveva detto, con una serietà che non gli conoscevo, che lui, di fronte a un’avvisaglia di dolore, si dava ad un’immediata fuga: e mi era sembrato in contraddizione con la sua energia vitalistica, con la sua qualità umana eccezionale. A quel tempo però non mi crucciavo troppo, credevo che tutto potesse essere tenuto insieme con un semplice atto di volontà.
Il pullman dell’Ilva si è lasciato dietro il minuscolo paese di Monteparano con il suo portentoso castello – vi erano veramente cavalieri dove ora stazionano questi vecchi compari che si contentano di una birra e di un po’ di frescura? Cerco di fare il vuoto nella mia testa, di lasciarmi cullare da questo pio pullman. Domani ripartirò. Cosa ne è stato del mio sogno tarantino? Avevo creduto veramente nella possibilità di portare il mio pianoforte sull’isola, di farmi amici alcuni bambini fra quelle strade inospitali, di incontrare a sera il mio tarantino per offrirgli il vino sul balcone; mi ero vista sospinta da un sentimento radicato, positivo di vita: e bella, ariosa. Lo avevo aspettato per parlargli di questo. Mi ero appoggiata all’ulivo guardando i cani della piazza; era settembre e quel giorno il vento aveva una qualità nuova. Dentro avevo un sentimento mite e dolce, una speranza. Mi aspettavo di vederlo giungere da un momento all’altro con la sua andatura caratteristica, lanciando guizzi con gli occhi azzurro-cielo. Avremmo parlato di quello che poteva accadere dopo la mia partenza. Già mi vedevo a sistemare il monolocale in via Santa Monaca per due, a presentargli gli amici del bar Cento Stelle: volevo chiedergli di stare con me per un po’ a Firenze. Desideravo che vedesse indossare la mia biografia toscana, che mi vedesse urbana, efficiente nei miei molti impegni. Avrei però fatto quello che voleva lui: mi sarei compiaciuta di una sua spinta energica, di una volontà decisa che riguardasse entrambi. Aspettando cercavo un posto per lui nella mia vita fiorentina, e un posto per me nella sua vita tarantina. Intanto non arrivava ancora, forse aveva trovato traffico a Manduria. Mi ero dunque staccata dall’ulivo e dopo essermi trascinata per i quattro lati della piazza irregolare, dopo aver bevuto un caffè in ghiaccio al bar sport e aver scambiato due chiacchiere con il barbiere, mi ero avviata alla piazza della fontana, dove lui era solito lasciare la sua fiat, separata da quest’altra piazza da una sola strada. Aspettavo ormai da un’ora e mezza e lui non si faceva trovare al cellulare.
Improvvisamente mi ricordai dei discorsi sulle fughe e sul rifiuto del dolore, e mi fermai. Mi prese allora un sentimento mortale di paura: un brivido freddo come l’acciaio mi trapassò dal capo lungo la schiena sino alle gambe sradicandomi dai nervi ogni volontà positiva. Mi sentii di colpo svuotata, gelida, esangue. Eppure il mio corpo lo aveva sentito innamorato, c’era stata una gioia folle nei nostri giorni tarantini. Dove sei? Fare un passo mi costò moltissimo. Mi abbandonai su una panchina e già sapevo tutto.
Quella sera andai ancora a Taranto. Non per cercarlo. Gli avevo scritto due messaggi e ora il mio orgoglio montava, resisteva. Nello sguardo vacuo mi sentivo l’offesa e la paura fredda. Dovevo però congedarmi. Restai qualche minuto sul molo a guardare l’isola con la città cintata. Le luci gialle la facevano apparire bella. Con un residuo di volontà, triste in tutta la mia fibra, distolsi lo sguardo e montai sul pullman. Gli uomini dell’Ilva e io eravamo, ognuno a suo modo, gravati, e stanchi.

Domani tornerò a Firenze.

Lui è stato un amore meridionale. Di quelli che si lasciano dietro a fine ferie, come i cani nella piazza di Avetrana.

(Agosto 2010)

Poesia ionica

Se amarti è
come cogliere ciliegie
perdersi nelle ioniche pinete
quando a notte il mare
chiude le conchiglie,
tu capisci, bene mio,
che un sol punto di materia
può creare le galassie
e gli alberi del pane
e i rubini sotterranei
s’ogni fibra minerale
della bocca mia e tua
in un bacio fa la sintesi
del mondo.

martedì 4 gennaio 2011

L'oro di Napoli

“La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i millenni, e forse ne troveremo l’origine nelle convulsioni del suolo, negli sbuffi di mortifero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde che scavalcano le colline, in tutti i pericoli che qui insidiavano la natura umana; è l’oro di Napoli questa pazienza.”
Giuseppe Marotta, L’oro di Napoli

Spaghetti asciugati al sole

Visitai e non visitai, in Liguria, un grande pastificio. […]
Gli spaghetti. (Non so spiegarmi. Fui, di colpo, un veterano quando vede la bandiera.) […] Non erano nel 1912 a Napoli con me? Avevo dieci anni e gli spaghetti stavano in pochi metri di terrazza, su pertiche, ad asciugarsi al sole. Parevano una pianta; nei vicini giardinetti le viti ne ripetevano il motivo […]
Chi entra in Paradiso da una porta non è nato a Napoli, noi il nostro ingresso nel palazzo dei palazzi lo facciamo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Fummo allattati in fretta, mentre cuocevano gli spaghetti; subito le nostre mamme ci staccavano dal seno e ci mettevano in bocca un frammento di spaghetto; prima lo avevano deterso, con le loro labbra, da ragù […]
[…] sono il cibo ideale per chi ha sfacchinato dalla mattina alla sera e non ne può più; sono gli spaghetti all’aglio e all’olio.
[…] conditeli, per le veglie funebri, di sola ricotta. […] Sulla matassa degli spaghetti il castissimo triangolo di ricotta splende; l’uomo lo frantuma con la forchetta, tutto è bianco nel suo piatto e nel suo cuore […]

Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli

Taralli inzuppati in mare

È in quest’acqua lieta, e non in quella imbronciata, che bisogna inzuppare i ‘taralli’. Si tratta di ciambellette con strutto e pepe, localmente famose, alle quali la salsedine marina conferisce un sapore anche più allegro, persuasivo, starei per dire ondulante come il moto stesso della barca. I ‘taralli’ si mangiano appunto in canotto, abbandonando i remi, fissando per esempio le case di Margellina che fremono e pulsano come se fossero dipinte su una camicetta. Ora un mare che si è mangiato tante volte nei ‘taralli’, nei molluschi e nei crostacei più complicati ed eccitanti, qualcosa deve aver lasciato nel nostro sangue. Certi giorni basta uno scroscio di fontana, una fuga di nuvole, un soffio di scirocco, a far battere questo mare nei nostri polsi, mentre le dita istintivamente si incurvano come sulla impugnatura di un remo.”

Giuseppe Marotta, L’oro di Napoli