martedì 31 dicembre 2013

Family

FAMILY

È colui che più ama la propria famiglia che ne diventa il peggior critico. Chi riesce a sorvolare su troppe cose, a fare buon viso a cattive usanze, non dando peso ai vizi e alle credenze, in fondo non ha a cuore gli individui della famiglia, ma solo il proprio quieto vivere. I suoi fratelli, ad esempio, lo deridevano perché lui se la prendeva maledettamente per l'abitudine che avevano i genitori di riempire gli scaffali di medicinali e di rifornire ogni stanza di calendari della farmacia, con un diabete o un Alzheimer ben esposti mese per mese. Non sopportava il tipico modo del padre di alzarsi dalla poltrona o di camminare trascinando le ciabatte come se necessitasse di un girello, per la semplice consolazione di sentire l'inerzia del corpo, o l'ottuso modo della madre di ripetere dei commenti di estrema destra contro gli immigrati solo per sentirsi dalla parte dei forti. Quello che lui sopportava meno di altro era l'atteggiamento della sorella, che non potendo uscire dalla ragnatela della famiglia - zitella  e con un lavoro di contabile per una piccola ditta -, imitava la voce, la postura e persino le parole dei vecchi genitori. Da qualche tempo questa sorella aveva preso ad occupare la poltrona del padre, dove lui usava stare seduto a leggere mentre la moglie cucinava il pranzo, e dove tornava a sprofondare subito dopo il caffè. Ora era la sorella che dopo pranzo si posizionava su quell'avamposto, e da lì controllava i movimenti degli altri, costringendo il padre a cercare rifugio nella camera da letto. La sorella, proprio come l'anziano padre, aveva commenti per tutto e per tutti, e da quella postazione fissa dispensava sguardi. Da piccolo lo aveva sempre infastidito la vacua e pigra presenza del padre, che dalla sua assenza sostanziale si nutriva dell'attività altrui: vagava per la cucina irritando la moglie, compariva come un'ombra dietro il figlio mentre questi ascoltava musica, si avvicinava alla figlia mentre leggeva per chiederle: "Stai leggendo?". L'assenza di relazione veniva colmata con parole, interrogatori, commenti, che grattavano la superficie irritandola, senza mai toccare corde più profonde e vitali.
Era certo che i genitori intravvedessero la tristezza di questa figlia in poltrona che da qualche tempo pareva essersi rassegnata alla sua condizione. Tutte le settimane si presentava per il sacramento del pranzo domenicale, si sistemava sulla poltrona, e si disponeva a tessere per ogni fatto della vita e della giornata un commento. Ultimamente non finiva neanche più le frasi, tanto era impegnata a riempirle della propria voce: cominciava un'osservazione per poi virare verso un altro enunciato neppure ben articolato, consistente in un'autoesplorazione del proprio vuoto, un susseguirsi di "vedi, è proprio così che uno poi... ah bene, sei riuscito, del resto non è che tutti possono farcela, ma tu sei proprio quel tipo di persone che... hai visto com'è buio già? eh, sarà lungo l'inverno, per me che mi devo alzare presto, eh, così è... chi è, la Betta? eh, dille che poi la richiamo, eh, c'è chi ha tanto tempo, proprio tanto... hai visto che è sceso il freddo? non mi dire che è già arrivato l'inverno! estate o inverno, io mi devo sempre alzare presto lo stesso... ah, dovrei proprio andarmene su una spiaggia... ma prendere il treno pure in vacanza, uhm... adesso si lamentano tutti dei treni, eh!, quanti anni ho viaggiato io in piedi come su un carro bestiame, ora si sono svegliati tutti... ah, bello quel maglione, te lo sei messo, sembra caldo, cos'è lana? misto? eh sì ora ci vogliono i maglioni più pesantini... ah, l'hai usato allora quell'orologio? cos'è, a molla? bello, triangolare, ora si usano tutti così, questo mio è vecchio ormai, ma tanto, eh, che vuoi farci, va bene lo stesso...". Poteva andare avanti così per ore, con voce tediosa e mal controllata, nella riduzione del creato alla sua misura.
Lui aveva l'impressione che ai genitori stesse bene così, anzi, che loro avessero in segreto cullato la speranza che la figlia rimanesse vicina e fedele. Proprio quando stava cominciando a chiedersi se i suoi pensieri non fossero esagerati, la sua bambina, in visita dai nonni, cominciò ad accusare uno strano nervosismo, come se fosse esasperata, sinché senza preavviso non esplose gridando in mezzo alla stanza in preda alla sua prima crisi di nervi: "Basta, state sempre tutti a parlare, sento solo queste voci, basta!". Un altro giorno aveva sentito la sorella giocare con la nipotina, mentre, dando voce ad una bambola, imbastiva un dialogo lamentoso: "Non uscire, fa freddo fuori, dove vai, ti puoi raffreddare, resta qui...". Aveva allora provato moltissima pena per questa sorella, perché "resta qui" era stato il ritornello della madre anche nei suoi confronti, motivato da una serie di ansie per pericoli percepiti in ogni ansa dell'esistenza. La sorella aveva in fondo solo obbedito alle richieste della madre: "Resta qui, dove vai, fa freddo fuori, non andare, qui stai meglio...".
Ciò che le famiglie non dicono - desiderare i figli incapaci di fare le cose, considerare i genitori incapaci di cambiare - è il vero scandalo, pensava.



PARTNER

Succedeva sempre all'improvviso che durante una conversazione al bancone di un bar o alla scrivania, su una questione di lavoro o su un argomento più rilassato, l'interlocutrice cominciasse a guardargli la bocca, fermandosi sugli angoli delle labbra, e non alzasse più gli occhi. Sapeva bene, perché aveva avuto delle corteggiatrici molto esplicite, che disponeva di una particolare esca, una speciale piega che prendeva la bocca quando parlava, che risultava irresistibile. Quando lo sguardo di una donna abboccava, lasciando appesi gli occhi al breve movimento di quella piega, capiva che la sua interlocutrice non lo stava più seguendo. Cominciava allora una negoziazione con se stesso sul da farsi, perché se da una parte a quel punto era facile portare avanti le cose sul piano personale, dall'altra non sopportava che alcune donne trovassero più interessante un dettaglio fisico insignificante rispetto alle parole che diceva. Più in là con l'età prese ad assaporare l'effetto di un certo potere, che poteva esercitare sino in fondo, rendendo ancora più ammiccanti le movenze della bocca e ancora più indifferente il proprio atteggiamento verso la donna. Dopo tanti episodi impuniti, un giorno la ragazza che sarebbe diventata sua moglie l'aveva messo al suo posto, chiedendogli con aria di sufficienza: "Ti trovi molto bello, non è vero?".
Ci aveva poi messo molto a convincerla a sposarlo. Lui aveva una buona posizione e una casa di proprietà in città, più un rudere di villeggiatura che stava rimettendo a posto. Lei era una donna molto curiosa che si era spostata ogni anno per vivere in un posto diverso, perdendo la possibilità di fare carriera, ma restando sempre molto interessata alle storie degli altri e alla propria evoluzione. Pensava che una donna così fragile avrebbe potuto conquistarla in breve tempo, esponendo come una coda di pavone le sue proprietà. Ma lei non era una merce di scambio. Anzi, ciò che la irritava negli uomini era proprio l'esibizione di forza, e ancor di più un certo atteggiamento dell'uomo arrivato che considera l'amore la ciliegina sulla torta, un abbellimento del quadro, un divertissement. Non sopportava l'uomo sicuro della propria posizione, disposto a includere una preda nel proprio territorio, ma non a spostarsi da lì. Sapeva di aver perso l'occasione di trovare un ragazzo suo coetaneo brillante e sincero che avviasse con lei un progetto nuovo, perché quella era l'unica condizione per il vero amore: incontrarsi da due posizioni diverse per muoversi verso un territorio vergine. Di fare la dama di compagnia non aveva proprio l'intenzione. Era vero però che molte giovani coppie che all'inizio avevano trovato un interesse comune in un'attività sportiva o nell'idea di una famiglia da fondare, avevano poi compreso quanto superficiale fosse il loro legame sentimentale e quanto illusoria la loro complicità. In generale per lei i rapporti d'amore erano infatuazioni che poi presentavano un conto salato in termini di riduzione della libertà personale.
Questa volta però non riusciva a smettere di pensare a quell'uomo vanesio e arrogante. Per di più lo incontrava di continuo, senza volerlo, come se il destino volesse prendersi gioco di lei. Lui voleva sempre presentarla a tutti, la invitava a casa dei genitori in provincia, le trovava collaborazioni con la sua azienda. Però c'era sempre un momento in cui lui diceva una parola sbagliata che le faceva capire quanto poco la tenesse in considerazione e quanto poco si accorgesse del suo acume, per esempio stupendosi quando i fatti dimostravano la ragione di lei. Fu così che, anche se alla fine si sposarono ed ebbero una bambina, lei lo lasciò dopo quattro anni. Eppure un episodio l'aveva messa in guardia sin da subito sul valore che lei aveva ai suoi occhi. Fu quando lui le ripetette oziosamente che se lei lo avesse sposato, tutti i suoi averi sarebbero stati suoi; allora lei poco dopo gli aveva chiesto per metterlo alla prova: "Mi regali un libro della tua libreria?", e lui aveva risposto tergiversando vagamente: "Ma no, non so, sono miei... Dai... andiamo di là ora".

lunedì 16 dicembre 2013

Perfect Day

"Upward-facing dog, downward-facing dog, breath! Inhaling, exhaling, two, three, four...".
Venti persone praticavano la disciplina nel locale dell'ex fabbrica di pianoforti sui tappetini ben allineati. La combustione dell'incenso di elemi espandeva nell'aria riscaldata una qualità sacra. Oltre le grandi vetrate risaltava un cielo blu intenso ritagliato da tetti a punta e facciate ricoperte di pitture murali.
La pratica dello yoga allenava il pensiero e l'attenzione muscolare sino ai limiti. Il potenziamento dell'energia avveniva per una miracolosa combinazione di fattori nella più assoluta pace. Dopo sessanta minuti di perfezionamento, restava nella stanza un grande senso di gratitudine. Chi aveva preso parte alla pratica, sembrava "intoccabile".
Percorrendo il verde cortile affollato di biciclette, uno del gruppo uscì nella Oranienstrasse. Entrò nel Bateau Ivre, facendo risuonare il cuoio delle scarpe sulle tavole di legno, e si sedette al bancone. Mentre ordinava un tè di zenzero alla ragazza con la frangetta, in diffusione la voce di Lou Reed cominciò a cantare "Perfect day".
Il 26 giugno del 2017 era un giorno perfetto. In un'altra parte della città, qualcuno l'aveva calcolato, programmato, aspettato.
Il barista stava sfogliando un giornale in un momento di pausa, altri guardavano un piccolo schermo. Si parlava sempre della Russia, l'ex gigante dell'energia. Il mondo era pieno di nemici apparenti, probabilmente funzionali ad un certo sistema. Gli servirono l'ordinazione. Per chi praticava la disciplina ogni giorno, non aveva attrattiva la possibilità di leggere un giornale e al contempo di controllare la posta sul telefono mobile lasciando raffreddare il tè. Bere il tè bastava. Ogni cosa bastava in sé. Aprire una porta per uscire, stendere un braccio in alto e sentire l'elevazione. A lui interessava il potere personale, la capacità di mettere da parte l'ansia o di congedarsi da una situazione usando la visualizzazione. La possibilità di escludere molte informazioni impure gli consentiva di preservare una giusta pace. In una città come Berlino, con tutta quella aggressività compressa nella metropolitana, ma anche un grande potenziale spirituale, non avrebbe potuto fare a meno della sua pratica quotidiana. Si alzò sull'ultima nota della canzone. Aveva appuntamento con un'amica nel Viktoria Park, il suo luogo preferito a Kreuzberg.
Il sole era tiepido ma radioso. Sulla verde spianata in salita due cani si inseguivano a grandi balzi. Una madre con il capo velato tirava fuori da una busta di plastica un pezzo di pane con il sesamo e lo porgeva al bambino. Due ragazzine bionde erano stese sull'erba con gli occhi chiusi e ridevano parlando della scuola. Un uomo con la barba passava più giù portando una chitarra nella custodia. Presso un grande tasso due ragazzi si allenavano lanciando il diablo e ripescandolo al volo. Il traffico della strada si sentiva appena. Era un giorno immobile, pacifico. La sua amica l'aveva avvisato del ritardo, sarebbe arrivata quindici minuti dopo: la gatta era scappata di casa e doveva riprenderla. Intanto lui affondava le mani sul prato erboso, e godeva nel sentire un certo tepore sui fili d'erba ruvidi. Da quella posizione poteva intravedere la croce che svettava sul monumento neogotico di Schinkel, un obelisco in ghisa infuso di orgoglio nazionale. Le due ragazzine ora si stavano sistemando le cuffie, da cui usciva un'opaca intonazione di A Hard Day's Night, mentre il bambino con il pane in mano passava loro accanto incuriosito, richiamato subito dalla madre. Questa fu l'ultima scena che vide, perché in quell'istante ci fu una detonazione violentissima che frustò l'aria e squassò la collina. Fu un attimo molto semplice di orrore purissimo e denso, una discesa in picchiata verso gli inferi. Nessuno delle persone sulla collinetta può raccontare cosa fu ad esplodere, perché vennero tutti dilaniati. Solo l'amica in ritardo, che giunse dodici minuti dopo sul luogo o nei suoi pressi (a stento lo si poteva chiamare ancora luogo), poté raccontare, sotto shock, di aver vomitato annusando l'acre odore di cadavere e di bruciato. Su un terreno squassato, irriconoscibile, si aggirò fuori di senno fra i corpi dilaniati e le sirene laceranti, cercando brandelli del suo amico.
Così finiva a Berlino l'epoca della pace e della pratica spirituale e cominciava una terza guerra.

Ho scritto questo brevissimo racconto ad un mese da una lettura inquietante. Un giorno mi ritrovai in mano un libro scritto da una famosa chiaroveggente berlinese che ad una sua cliente predisse: "Fra diciassette anni ti aggirerai in un parco di una città del Nord della Germania, un parco con vecchi alberi, e ti troverai in uno scenario di sangue e distruzione, con molti morti attorno, come dopo un attentato".

Il 26 giugno 1963 John F. Kennedy pronuncia la famosa frase "Ich bin ein Berliner".
Il 26 giugno 1964 i Beatles pubblicano l'album A Hard Day's Night.
Il 26 giugno 2000 il testo del terzo segreto di Fatima viene divulgato.
Il testo del segreto fu dettato in apparizione dalla Madonna a tre pastorelli nel 1917 e tenuto segreto sino al 2000. Una parte del segreto non è stata ancora rivelata: si ritiene sia troppo sconvolgente.

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

domenica 15 dicembre 2013

Sul pianerottolo

Non accendere la luce, resta ferma. Stai nell'angolo, nell'ombra, immobile, tieni stretto, intero, il buio che t'avvolge. Se si rischiara, cessa l'incantesimo. Resta ferma per le scale, sul pianerottolo, nell'angolo che il lampione dai vetri non raggiunge, al muro, con le spalle cedevoli, stordita dal fumo e dall'odore di saliva.
Non potevo mettere una distanza, stasera. Un incanto era, la sua bocca intonata alle parole e al desiderio che le tratteneva, tesoro minerale, antro di magnifica miniera. Com'è successo che non potessimo più reggere tutti quei passi vuoti, ridondanti di sincopi, tutti quei centimetri fra le nostre mani?
Piano, fai piano, non spezzare l'incanto, resta ferma al terzo piano, lontano dal portone che s'apre al giorno e ai passaggi, chiudi gli occhi e trattienilo con te, lo stordimento per quei baci a forma di stella marina, nudi come il muscolo cardiaco.
Cerco il buco della serratura alla cieca, entro come un elfo che non lascia impronte, non so più di che sostanza io sia fatta, forse mi hai rubato le molecole del senno, perché non comprendo più dove posarmi se non ti posso guardare. Mi sembra di dover girare attorno, su me stessa, come in un antico folklore di donne possedute. Giro in mezzo alla stanza e poso una mano sulle labbra, le sfioro, sigillo, trattengo, rievoco un'intimità. Cosa vuoi fare con queste mie labbra, dimmelo. Perché domani non mi serviranno più a niente, né a parlare, né a nutrirmi. Mi sembra che di tutti i miei sensi, solo una memoria precisa e attonita abbia sostanza, la dolcissima linea che fa da tetto ai lucciconi dei tuoi occhi.

Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

giovedì 12 dicembre 2013

Fratello Gatto

Di Genova mi piacevano i venti foranei, ampi, che infilavano nel porto antico aria dal largo. Scrivendo degli anni liguri, non sono più in questa piatta landa di Brandeburgo, ma sul molo dei Doria, di fronte ai rimorchiatori, in una bava d'aria che increspa appena il mare, accanto a una fila di gabbiani urbani, sotto il serpente della sopraelevata con il suo traffico d'auto, e nient'altro si muove nella città addormentata.
Genova grigia d'ardesia, dorata di tramonti. Genova di cieli voltati a crociera.

Genova è tutta stretta, di sentieri e case in salita, appoggiata su un'instabile terra di torrente, terrazza salmastra di vedetta, castone di vecchie chiese e rolli, affacciata su una linea di mare giallorosa, su cui scivolano lunghe navi e chiatte, talvolta così lontane e ferme sulla curva terrestre da sembrare sospese nell'orizzonte-ascensore pronte a salire in cielo. 

Di Genova mi piacevano i caffè di Sottoripa, via San Luca, via Banchi, piazza Caricamento, stretti e cantilenanti, ritrovi portuali di una città senza più scaricatori, camalli, hammal arabi. L'aria di Genova è tesa da Boccadasse all'Ansaldo, s'infila per i carrugi, s'apre nel sestiere del Molo, solletica il drago di San Giorgio, sale da Palazzo ducale raccogliendo fragranze di focaccia e vermentino, e sosta a Castelletto, prima di ascendere ai monti. A Genova è tutto un gran salire. 

Abitavamo nel porto antico, era la nostra seconda casa. A Genova eravamo dal 1990 e in quel tempo si preparavano le celebrazioni colombiane. Lo ricordo perché dal 1992 qualcosa cominciò a cambiare, a rinascere. Pur venendo dal Salento estremo, da una dimensione anagrafica minuta, di Genova pensai ragazzina che aveva uno spirito morente, scolorito. In città scoprii gli autobus, che non avevo mai usato, e le creuze in salita, che allenarono la mia muscolatura in un modo nuovo.  

La nostra seconda casa era di moderna architettura, e sorgeva nell'antica area portuale dei Magazzini del Cotone. Mi piaceva molto, anche se essendo un alloggio di servizio della Marina militare, faceva difetto di calore. Non solo era esposta al vento, ma le mancava la protezione dei muri vecchi, solidi, delle mura storiche che contengono le case e le incursioni delle brezze.

Forse per questo senso di isolamento e per un'assenza di comunità (eravamo una delle tante famiglie meridionali al Nord, senza parenti né amici, affacciati su un mare estraneo, troppo profondo, e oppressi da monti inesplorabili), decisi di prendere un gatto. Per me un animale domestico (questo lo ricordo bene) significava allora mettere in famiglia tenerezza a compensare tensione, e anche segnare un nuovo inizio nella nostra biografia familiare. Non se ne parlava proprio: non ci si poteva permettere un tale vincolo. Noi eravamo la tipica famiglia migrante, che programmava l'inverno in vista del viaggio estivo verso Sud. Un gatto non rientrava nei nostri piani di spostamento.

Invece lo presi. A quei tempi ero in amicizia con un compagno più grande di conservatorio. Lui abitava in un brutto quartiere, una di queste addizioni di case periferiche sui monti. Sulla cartina tali appendici assumono la forma di serpentine senza sbocco, un'innervazione di strade prive di slarghi e ampiezze nobili. Di bello però Borgoratti aveva l'accesso ai sentieri, e infatti da casa sua partivamo spesso verso le alture a raccogliere more e corbezzoli per le crostate. Lui mi disse un giorno che una gatta del quartiere era stata vista figliare. Lo pregai di portarmi in esplorazione per le sue vie alla ricerca di uno dei mici. Ricordo che guidavo una Austin blu usata, presa insieme a mia gemella appena avuta la patente. Ad una svolta, scendendo in curva, vedemmo un micetto bianco e nero miagolare davanti ad un portone. Il mio amico scese dalla macchina, lo sollevò per la collottola e mi chiese: "Ti piace?". Io dall'abitacolo risposi di sì e mi presi il micio. Il viaggio verso casa fu drammatico, perché la bestiola, non adusa al trasporto su quattro ruote, pensò bene di farsi una passeggiata sul mio cruscotto e sul volante. 

Non so come arrivammo a casa, io e il mio ospite. Questo micetto bianco e nero, entrato nella mia vita un 31 agosto, strategicamente dopo le vacanze estive e il relativo viaggio verso Sud, aveva "una bella faccia tosta" (cito mia madre), una felina sicumera. Sebbene mi fosse stato subito intimato di portare via la bestia, in un modo o nell'altro Silvestro riuscì a rimanere con noi: e per vent'anni.

Di Silvestro, in quest'alba dei suoi ultimi istanti di vita, nel suo tramonto, ricordo tutto. Averlo in casa da piccolo era un divertimento. Ad ogni risveglio non sapevamo cosa avremmo trovato: chiuso in cucina, di notte si sfogava giocando con le patate o con le castagne, facendole rotolare su tutto il pavimento; chiuso in bagno, faceva dispetto a mia madre (colei che lo voleva chiuso, per difendere almeno le camere da letto) mordendo e srotolando la carta igienica, che riduceva poi in brandelli. Ricordo perfettamente, ora che i suoi occhi sono opacizzati dalla cataratta, il suo sguardo vispo e appuntito, lesto nel seguire le farfalle di carta che io e mia sorella preparavamo con grande spasso. Faceva gli "appostamenti" a mia madre: lei entrava in cucina e lui le saltava sui piedi, tirandole fuori un'imprecazione (però secondo me si divertiva, questa madre un po' dura ma sentimentale). Tutto capivamo di lui, io e mia gemella, sue complici: che voleva bere dal bidet (ci guardava seduto in quel trono bianco e fresco, passando la zampa sui fori di uscita dell'acqua - forse per la memoria di fonti d'altura); che voleva dare la caccia alle nostre prede di carta; che voleva acciambellarsi sul nostro letto, accanto alle nostre gambe e sotto le coperte (non ho mai capito da dove potesse respirare); che sapeva aprire le porte di casa saltando e pesando sulla maniglia; che abbassando le orecchie, mettendo il naso e le iridi a punta, e bilanciandosi sulle zampe posteriori, era pronto a scattare. Sulla pelle delle mani porto ancora la testimonianza dei suoi graffi rapaci, dei suoi serissimi giochi. Quanto abbiamo giocato: ore e ore della mia seconda giovinezza (avevo allora diciott'anni) insieme a lui. Per mia madre, nel suo lungo esilio genovese, è stato un rinnovato vincolo di cura, ma anche un'impronta d'infanzia in quegli anni malinconici con la figlia grande lontana; è stato la sua compagnia.

Ricordo ancora i miei studi al pianoforte. Silvestro si metteva in alto, regalmente composto, con la mostrina bianca in ordine, le zampe bianche perfettamente allineate, avvolte dalla coda in avanti - lo strascico ben disposto della sua pelliccia nera. Mentre suonavo, il suo sguardo seguiva le mie dita leste sulla tastiera: anche a loro faceva gli appostamenti, interrompendo Chopin con un cluster.

Fratello Gatto, in quale stella ti trasformerai quando lascerai questo suolo? Sei un testimone di famiglia. Ci hai seguiti in tutti i nostri viaggi, in tutti i traslochi, in tutte le nuove case, giocando con gli scatoloni e protestando in auto. Ricordo la tua voce quando eri piccolo. Ci hai messo tantissimo a dire il primo "mao": forse non ci ritenevi degni? Voce di ragazzino. Nella tua adolescenza, eri brutto: ti si era allungato il corpo, mentre il muso era rimasto piccolo. Avevi perso gli occhioni da micetto, e non avevi ancora il piglio del gattone. Poi sei diventato il vero padrone di casa, padrone della poltrona, del balcone e del pesce che rubavi a mia madre.

Sei stato il compagno delle sue lunghe mattine silenziose. Tornando dal mercato lei ti salutava, e mentre pelava le patate ti poneva delle domande, come si fa con i neonati muti. Come la tivù, tu non rispondevi, ma eri una presenza invadente. E poi sei andato a stare con mia gemella, che per anni ha desiderato un bambino. Avevi un'adorazione per mio cognato, anche lui così duro e commosso nel prenderti in giro, perché non ti staccavi dai suoi piedi.

Fratello Gatto, ora che te ne stai andando, vorrei riportarti nella tua Genova. O forse sono io che ho nostalgia del suo porto, del suo vento. Andiamo insieme a trovare la Superba.

Sei stato con noi sinché è arrivato un nuovo bambino in famiglia. Nove anni di speranza, nove mesi di attesa. E tu eri lì a raccogliere l'infinito bisogno di tenerezza. Ora che il bambino è qui, nelle braccia della sua mamma, tu ti spegni lentamente, ci lasci, come ogni spirito che abbia compiuto il suo ultimo dovere.

Andiamo a Genova insieme, ascendiamo a Borgoratti e saliamo sino alla vetta più alta, sino ai boschi delle lucciole. 

Era così bello avere l'età che avevamo.