martedì 10 maggio 2011

Intercity Notte

Quando si sale sull’Intercity notte, si incontra un’Italia che negli aeroporti, nelle riviste non si vede mai: cittadini maschi di provenienza nord-africana che viaggiano senza donne e donne dell’Africa continentale che occupano lo scompartimento solo in gruppo; giovani professoresse dirette al Nord che il lunedì mattina saranno stanche in classe dopo il viaggio; coppie meridionali al termine della visita ai figli lontani (carichi di conserve e caciocavalli all’andata, muti come cani battuti al ritorno: li si riconosce dagli abiti, dalle valigie vecchie, dai cartocci coi panini, dalle mani); calabresi che arriveranno al capolinea quindici ore dopo e che quando parlano al telefono avviano senza preavviso una lingua incomprensibile, dura, aspra, rocciosa, una lingua da capre, da montagna, sopravvissuta non si sa come sino ad oggi.
Tutta questa gente porta con sé un certo odore. Lo percepisco distintamente. In questo scompartimento della carrozza 7 viaggia un ragazzo calabrese, che mi dà del Voi: passa il tempo al telefono e tiene la mano libera dalle conversazioni sulla zona dei genitali, a mo’ di conforto, mentre comunica alla madre – se ben capisco – quando mangerà i panini da lei preparati col caffè freddo in bottiglia. Di fianco due allegri ragazzi maghrebini chiacchierano continuamente, passando dall’italiano, di accento modenese, all’arabo; gli altri occupanti sono un ragazzo discreto, che se ne sta sempre in corridoio, sospeso all’altro capo della linea cellulare da cui immagino gli parli la sua ragazza, e un uomo piccolo, mal vestito, che fra un po’ comincerà a russare. In mezzo ci sono io.
Arrivare alla stazione di cambio di Milano Centrale è un sollievo, per la più vasta umanità e la maggior luce che vi si trovano. Se una ragazza ha da temer qualcosa, è nelle piccole stazioni durante i cambi, dove a sera s’annidano maniaci di tutte le fattezze e preferenze e vari personaggi che passano da un treno all’altro, da una stazione all’altra cercando di accorciare la loro notte – senza tetto e senza letto.
Quale motivazione spinge una ragazza a mettersi in viaggio di notte? Il viaggio stesso, l’incontro con il vario bestiario umano, e forse qualcos’altro che magari, chissà, più tardi sarà da maledire.
L’abbigliamento più comodo è un grazioso vestitino bianco a fiori lilla in maglina, che si ferma al ginocchio con un elastico: lì dentro faccio scomparire le gambe raccolte e i piedi nudi: una grande sciarpa viola mi ricopre tutta. Ogni viaggiatore notturno aspetta che il posto a sedere davanti a sé si liberi per poter distendere le gambe. Qualcuno attende anche che il treno, ruggendo da campi a città, suggerisca nell’orecchio un verso, una bella parola da scrivere.
Questa domenica va di lusso: rimaniamo in tre, e ognuno si prepara la sua branda, dove si rigirerà cautamente tutta la notte, sinché il mare illuminato dall’alba non ci sorprenderà a Termoli.
Il ragazzo calabrese risponde al telefono molto presto, con un suono indistinto, simile ai richiami del pastore verso le pecore. Dopo che ha finito di shakerare il suo caffè nella bottiglietta di vetro, parliamo un po’. Mi dice con una faccia bruciata, alzando sopracciglia e spalle, che giù in Calabria non c’è lavoro, non c’è niente per occupare il tempo, a parte ricorrere allo “sballo”, che nelle campagne vengono impiegati solo extracomunitari che fanno “la bella vita” mentre lui è senza lavoro da nove mesi: la linea degli occhi si abbassa sotto il peso della pena nel rievocare le ore di noia, le giornate senza occupazione passate ritirati in camera, i ritrovi con gli amici sfaccendati per le strade vuote, nelle piazze destinate ai vecchi e ai cani. Eppure quando parla del suo paese, della costa di Capo Rizzuto, delle pietanze genuine preparate dalle madri (non ho conosciuto madre calabrese che non ritenesse il cibo industriale una diavoleria, un peccato mortale verso i propri figli), gli si illuminano gli occhi.
Da un’ora e mezza la chiavetta cerca la rete per connettere il mio computer al mondo fuori di questo treno. Mi è impossibile lavorare. Il male cronico di queste terre sta nel ritardo irrimediabile, e nell’abbandono, nella rinuncia, nell’alzata di spalle che assolve i peccati come le avemarie al termine della confessione. Per vivere qui non ci si deve porre domande: bisogna essere come capre sui sassi, o imprenditori ostinati che si sostituiscono al pubblico riparando da sé le inefficienze locali. Altro è arrivare dal cielo con l’aereo, giungere in un trullo ben arredato, ricevere l’impressione di ulivi e gelsi e, senza lasciare traccia né lacrime, con ugual mezzo andar via verso nord, ignorando i cani che passano la vita legati alla catena, le ragazzine che possono uscire solo accompagnate da un familiare, i ragazzetti arroganti che hanno la testa china e lo sguardo fragile, così basso da non vedere oltre lo Jonio. 

giovedì 31 marzo 2011

Incipit improbabili: Io e mio gemello

Mia madre, una tedesca di Amburgo corpulenta, alta e in buona salute, dalla pelle leggermente rossastra, capitata in Italia per il rocambolesco acquisto di due asini, si era scelto con cura il compagno con cui passare l'età della piena maturità sessuale: un uomo piccolo e scuro, abruzzese, per pochi centimetri non proprio un nano, cuoco, di dieci anni più grande di lei, che a letto copriva la misura giusta da un bottone all'altro del piacere, procurandole nel montarla orgasmi da marea-in-piena e impennate di godimento sui capezzoli che sprimacciava con la sua boccuccia.
Fu durante uno di quei momenti di tripla estasi che io e mio gemello fummo concepiti.
Starete immaginando quale mostruosa sintesi possano aver concepito un piccoletto scuro e un donnone bianco-rosso: non sprecate sfiati di fantasia. Io e mio fratello siamo il frutto di due spermatozoi vincitori a pari merito, che anziché dividersi il premio si sono guadagnati un uovo ciascuno: e noi pii, per massima equità, siamo venuti fuori uno alto, atletico e biondo, l'altro scuro, peloso e con le gambe corte.

mercoledì 9 marzo 2011

Albania/Italia: INTERVISTA A RIDVANA LACEJ

 
5 marzo 2011


C. Ridi, cominciamo da domande fondamentali: sei abbastanza contenta di te e della tua situazione di vita?
R. Dipende cosa si intende per situazione di vita… Sono contenta quando mi vedo realizzata come madre, ma non sono contenta quando penso che le mie ambizioni lavorative erano ben diverse.
       
C. In quale città sei nata? Dove vivi ora?
R. Sono nata a Shkoder, una città bellissima in nord dell’Albania e  ora sono a Matelica nelle Marche. Vivo in Italia da 15 anni.

C. Il tema del “ritorno nella città natale” come si manifesta nella tua vita e nei tuoi pensieri?
R. Nella mia vita si manifesta come necessità e nei miei pensieri come un sogno da realizzare ad ogni costo.

C. Perché hai scelto l’Italia? Secondo te era nel tuo “destino”? Ti è mancata la forza di tornare in Albania o un motivo importante ti tiene qui?
R. Penso che era nel mio “destino”… non avevo mai pensato prima d’allora di decidere d’affrontare una situazione simile. Mai! Non mi è mai mancata la forza di tornare in Albania, solo che qui mi sono nati due figli e penso che per adesso per loro è meglio l’Italia. 

C. In che cosa la cultura albanese e quella italiana sono simili?
R. Siamo vicini di casa e poi nei secoli ci siamo frequentati a vicenda e così abbiamo potuto influenzarci uno con l’altro, ma io sinceramente non trovo così tanto uguali queste due culture. Forse le fasi della storia che abbiamo passato sono proprio diverse.

C. Sotto quali aspetti di costume e mentalità trovi l’Italia molto diversa dall’Albania?
R. Su tanti aspetti… noi non ci scordiamo facilmente la famiglia d’origine; ci teniamo alla nostra lingua e alla nostra cultura; l’orgoglio è una caratteristica molto importante per noi e a volte viene scambiata per prepotenza; siamo un popolo molto affettuoso e aperto, intelligente e con la voglia di andare avanti, ospitale e generoso… questo non vuol dire che siamo meglio degli italiani o, peggio ancora, che gli italiani non sono tutto questo, ma semplicemente che noi abbiamo delle idee diverse su molti aspetti di vita.

C. Ti è mai capitato di inseguire un’idea che poi si è rivelata una semplice manifestazione di debolezza o di limitata conoscenza?
R. Sì! Venire in Italia, che poi ha rivelato una limitata conoscenza. Avevo conosciuto l’Italia solo tramite le belle trasmissioni della tv.

C. Descrivi la tua giornata.
R. Inizia molto presto con il caffè a letto che mi porta mio marito, albanese :-), poi la colazione ai figli… Eger frequenta lo scientifico e parte per primo e poi Iris che fa la seconda elementare. Accompagno la bimba a scuola e poi vado anche io a scuola. Lavoro come facilitatore linguistico, presso le scuole medie. Mi piace; poi è il mio mestiere. Io nasco come professoressa in un liceo scientifico al mio paese. Dopo il lavoro comincia la mia giornata da mamma e moglie. Siccome il lavoro che faccio a scuola non è poi così  soddisfacente a livello economico, a pomeriggio faccio la babysitter. Fortunatamente i figli sono molto indipendenti nello studio. Poi la sera tutti a cena a mangiare (io sono una cuoca molto brava!) e a raccontare la giornata, chi di più (io ed Iris) e chi di meno (Ylli e Eger). Dopo cena io faccio 10 minuti di fb :-) e poi a letto con Iris a leggere finché il sonno non arriva. Vedo poca tv. 

C. Cosa pensi quando vai a letto?
R. Cerco di non pensare tanto, mi concentro nella lettura, ma a volta mi faccio delle domande sul presente e sul futuro mio e della mia famiglia.

C. Hai amici albanesi in Italia? Hai abbastanza amici italiani? Hai un pezzo di famiglia qui?
R. Sì ne ho qualcuno, ma sono pochi, visti i lavori diversi che facciamo. Certo che ho tanti amici italiani. Della famiglia non ho nessuno, né dalla famiglia di mio marito, né dalla mia.

C. Che cosa non ti piace dell’educazione dei bambini in Italia?
R. Vedo che purtroppo manca il senso del limite in tanti aspetti della vita di un bambino.

C. In che cosa ti senti più forte di una donna italiana?
R. I think globally! Io ho un’altra visione della vita e del futuro, ho gli orizzonti molti aperti visto che sono stata io a fare il primo passo verso l’apertura, cambiando paese e cultura. Mi sento più razionale di tante donne. 

C. Come sarà l’Albania fra 10 anni? Ci sarà molto turismo? La gente sarà più ricca?
R. Qui potrei dire tante cose, potrei esprimere tanti desideri, potrei dare tanti suggerimenti, ma solo una cosa mi piace dire: basta poco per far diventare l’Albania un paese ricco e sviluppato, perché l’Albania è un paese meraviglioso sia per la natura che per la gente.

C. Scrivi una frase in albanese, un proverbio o la strofa di una canzone (con la traduzione):
R. Guri i rende peshon ne vend te vet! (La pietra pesante, pesa al suo posto!) 

C. Che cosa ti fa invecchiare dell’Italia? E cosa ti dà speranza?
R. Mi fa invecchiare il fatto che qui non c’è la cultura dell’altruismo e c’è tanta incertezza per il futuro. Mi dà speranza il fatto che i miei figli vanno molto bene a scuola e così possono costruire un futuro dignitoso tramite lo studio, anche se la vedo dura. Poi sappiamo tutti che un bel po’ di fortuna non guasta mai.

C. In quale altro Paese ti piacerebbe cercare lavoro e abitazione?
R. Non lo so. A me non piace molto ricominciare. Se proprio devo, mi piacerebbe unirmi a mia sorella in Canada.

C. Come hai imparato l’italiano?
R. Da sola e poi per il lavoro che faccio ho seguito dei corsi, poi sono molto pignola… sono sempre con i libri e con i dizionari in mano.

C. Quali momenti sono stati particolarmente difficili?
R. Quando ero incinta di mio figlio e non avevo nessun aiuto: né morale né economico.

C. Quando ti manca l’Albania cosa fai?
R. Sento la musica albanese e vedo le foto delle vacanze fatte là.

C. Tirana sembra essere una città molto attiva. Ce la descrivi?
R. Anche a me sembra essere una città molto attiva, visto che è una metropoli, ma io da 15 anni non la vedo. Ho degli amici che mi raccontano e veramente a me spaventa un po’ il caos e le due facce di questa città. Da una parte il lusso sfrenato e dall’altra la povertà assoluta di tanta gente. 

C. Hai chiesto la cittadinanza italiana?
R. Sì, ma è passato tanto tempo e ancora niente… comunque mio marito e miei figli sono diventati già cittadini italiani da un anno.

C. Cosa vuol dire “casa” per te?
R. Casa per me vuol dire il calore di chi ti ama e che ami profondamente.

C. Che cosa dovrebbe conoscere ogni italiano dell’Albania?
R. La sua storia fatta di sofferenza e sangue. La sua cultura ricca. La sua voglia di essere e di andare avanti. La sua capacità di sopravvivere ad ogni evento disastroso.

C. Quale preconcetto sull’Albania ti ferisce molto?
R. Mi ferisce molto il preconcetto di paese povero e insignificante.

C. Cosa provi quando in televisione i politici parlano degli immigrati senza sufficiente rispetto?
R. A volte mi fanno arrabbiare, ma anche ridere, perché vedo che la loro superficialità di affrontare un fenomeno del genere è veramente inaccettabile. Spesso per loro l’immigrato è la persona che ha bisogno solo di cibo e vestiti… la dignità non conta.
 
C. Regalaci la foto di un momento in cui ti sei sentita felice…
R. I momenti belli della mia vita sono tanti e sono insieme con la mia famiglia. Non posso regalarvi una foto visto che i miei figli sono minorenni e io ci tengo molto a loro.

Grazie Ridi.
                                                                                                          

E-mail del 9.3.2011

C. Ridi, non ricordo più come ci siamo conosciute: vorrei scriverlo nell'intervista. Mi piacerebbe anche che mi spiegassi il significato del detto: Guri i rende peshon ne vend te vet!, che hai tradotto “La pietra pesante, pesa al suo posto!”

R. Io ti ho conosciuta tramite un tuo scritto... non mi ricordo, forse da qualche amico in comune... ma mi sei molto piaciuta e ti ho mandato l'invito su facebook.
Il significato del detto lo spiego anche in un mio articolo che ho pubblicato su un giornale, te lo manderò. Si dice così quando una persona cambia posto e per essere conosciuta, rispettata e voluta bene deve fare un segno nel posto dove è, praticamente deve passare tanto tempo. Fai la prova: prendi una pietra o un sasso che sono stati sempre in un posto e spostali, vedrai che per fare un segno così profondo ci vorrà tanto tempo. Questo detto casca a pennello su di me. Un abbraccio GRANDE. Ridi.

giovedì 10 febbraio 2011

Di voi non so dire il nome, né il male, né il bene

Nel suo corpo duro era penetrato un sentimento nuovo, invadente, un profumo sottile, un che di dolce e insensato che lo stordiva; era come se una parte delle cellule si fossero eccitate, ubriacate, come se avessero ricevuto un segnale per un movimento nuovo, circolare, leggero, di danza, quasi avessero deciso di avanzare e progredire in fila per due come scolarette, con un passo doppio come danzatori. Gli veniva improvvisamente da cantare.
Non era forse più giallo il sole? Più verde l'albero spoglio che ricamava la sua finestra? Più gentile la panettiera che gli preparava il solito panino al tonno da portarsi in ufficio? Venne la vecchia donna delle pulizie e lui dovette frenare l'impulso di sollevarla da terra in un girotondo, di abbracciarla e affondare in quel seno matriarcale la sua confessione, dirle ridendo, esplodendo: "Lei mi ama! Lei mi ama!".
E infatti mai avrebbe ammesso che la sua gioia rifletteva un sentimento puro. Perché, si diceva, in fondo ciò che gli mordeva la bocca dello stomaco, ciò che gli trafiggeva con punte infuocate la zona dietro lo sterno, provocando un'accelerazione nel sangue e una rarefazione del respiro, era la soddisfazione di aver vinto.
Le aveva dato appuntamento alle sei alla rimessa degli autobus. Non riusciva a non guardarla, i suoi occhi tornavano a lei di taglio, era come cieco nel campo di destra, solo dall'altra parte, dove lei gli camminava affianco, si concentrava la sua visione; tornava ogni pochi secondi al suo profilo di Madonna, si volgeva alle punte delle sue scarpe, al lembo del suo cappotto, alla sua postura elegante, decisa, alla sua voce fresca, alta, che non cessava di raccontare e proporre, a tutto il suo essere così sorprendentemente femminile: sembrava accorgersi solo in quel momento, come se avesse vissuto per anni in una caverna da orco, nascosto al mondo, che metà dell'universo profumava di vaniglia. La fascinazione che subiva era rovinosa, un bambino in un campo di fiori sarebbe rimasto più sobrio, voleva immergersi in quel nettare, in quel profumo che addolciva il mondo e che lo stordiva. Una donna affianco a lui. Lei. Cati. La sua presenza in quello spoglio deposito degli autobus era come una scia di farfalle eccitate che gli ballavano attorno prendendolo per il naso. Voleva portarle tutte in macchina, chiuderle, frenarle con la cintura. Quando la ebbe sul sedile affianco al suo, sentì un'ebbrezza piena e riposata, vincente. Lei affianco a lui, nell'abitacolo, lei che si faceva portare da lui, dove lui voleva, dove lui decideva, lei e le sue gambe sotto la gonna corta, le sue calze nere, sottilissime, le sue scarpe con la punta, lei e le sue gambe che si accavallavano e si scavallavano, lei e quella voce freschissima, una cascata, lei e i suoi denti bianchi, come neve, marmo di Carrara, sale che brilla sugli scogli, lei e i suoi occhi che non riusciva a guardare, quegli occhi quasi verdi, immensi, profondi, da bambina, come la più dolce delle cagnette, delle gattine, delle scimmiette, e quelle labbra mobili dove sempre si incagliava il suo sguardo, che non poteva smettere di seguire, quasi lo chiamassero ad avvicinarsi, ad entrare negli anfratti più cavernosi, e anche adesso doveva abbassare i suoi occhi arrendevoli su quelle ginocchia appuntite e fasciate di nero, per poi risalire, senza guardarle il seno che si faceva strada oltre il cappotto sbottonato, seguendo la linea della sciarpa verde smeraldo, e ritornare a quella bocca di rosa ma innocente, fanciullesca, sollevare una mano per un fremito improvviso del miocardio e passarle un dito fugace sul labbro inferiore, sentire appena l'umido della poca saliva marina che vi si era posata.
Non si era pentito di quel gesto tenero, del resto poteva esser sembrato molto controllato, molto studiato, una mossa ad effetto. Lei non poteva sapere che gli era sfuggito, che la mano si era sollevata da sola, che il dito aveva anelato a quel breve delicatissimo contatto. Come resistere: la bocca è l'ingresso verso l'anima, le viscere, il deposito degli umori, della saliva, delle lacrime, della lingua che conosce ed esplora, l'atrio per le parole, le risate, i singulti, per il passaggio di nutrimento e di piacere sin dalle prime poppate, di acqua e fiato.
Ora Cati parlava con la sua voce alta e veloce (com'era possibile che si stupisse di sentire note femminili così vicine a lui?), sembrava del tutto a suo agio, consapevole delle sue gambe. Lui tornava a quelle ginocchia e si mostrava concentrato sulla guida, ma dentro gli montava un'ansia nuova che non aveva previsto. In fondo è una menzogna, è da stamattina che sono agitato, sono stato pure a pensare che maglietta mettermi, mi comporto come un adolescente, come se non avessi mai visto una donna, cosa mi prende, non riesco nemmeno a guardarla, ha riempito l'abitacolo di profumo dolce, di colore, che occhi che ha, continua a cambiare la posizione delle gambe, è tranquilla, morbida, così vicina, si aspetta da me che la porti chissà dove, a divertirsi, e non riesco nemmeno a guardarla, si sente sicura qui affianco a me. Ma cosa pensa?, che non le salto addosso? Come posso cominciare a toccarla, a toccarla tutta, così femminile com'è, come faccio a sentire sotto le mie mani tutto quel corpo, quel calore, a incastrarmi nelle sue proporzioni perfette, da dove cominciare, da dove cominciare?
La macchina si fermò ad un semaforo. L'abitacolo restò muto per un tempo lungo, tiratissimo. Cati si girò con una mossa sciolta e coordinata, accentuò la torsione, cercò l'appoggio con la mano sinistra sullo schienale, inclinò il mento, e nell'istante in cui lui si girava per mettere in folle quasi l'operazione richiedesse sforzo, lei gli fermò la bocca con un bacio centratissimo, fenomenale.
E poi disse: "Prévert ha scritto che i semafori sono fatti apposta per potersi baciare".

In lui due impulsi si agitavano, ed entrambi originavano dall'orgoglio. Dopo quel bacio aveva voglia di portarla a fare una passeggiata sul lungomare, offrirle un gelato di circostanza e poi riaccompagnarla alla sua auto lasciandole tutte le pieghe della camicetta esattamente dov'erano, i capelli composti, la bocca fresca di gelato, il cappotto abbottonato: l'avrebbe salutata con distacco, voleva vedere sulla sua bocca un'espressione delusa. Un'altra voce in lui gli diceva che non poteva non rispondere a quel bacio con un'azione adeguata, che le avrebbe fatto vedere chi teneva in mano il gioco: sì, l'avrebbe portata in campagna, dietro il deposito degli autobus, e le avrebbe fatto capire che il suo intento era molto spicciolo.

Mentre lui si chiedeva quale posizione tenere, lei lo aveva sospinto sul lungomare perché niente la riempiva di gioia quanto il riflesso liquido e ondulato della torre sulla baia; tutto le sembrava d'una meravigliosa bellezza, destinata agli uomini sin da tempi mitici. Dopo dieci minuti di passeggiata si era allontanata per entrare in un baretto chiedendogli di aspettarla e ne era uscita con due bicchieri stile Ikea di vino bianco fresco: aveva gli occhi brillanti di una bambina soddisfatta mentre gli porgeva il bicchiere e commentava che vino bianco e mare non potevano stare uno senza l'altro, anche d'inverno.

E così avevano fatto passare le ore parlando fittamente e con allegria del lavoro, degli amici e dei progetti, del loro paese malconcio, dell'estate che sarebbe arrivata. Lui pensò che ormai Cati doveva essere congelata, anche se la voce le rimaneva ferma e brillante. Non aveva voglia di portarla in un locale affollato, non voleva spartirla con nessuno. Temeva che se il quadro fosse cambiato, lui avrebbe perso quel senso di vicinanza, quel calore che veniva da lei e di cui ora beneficiava esclusivamente. Così non gli rimaneva altro che portarla dietro il deposito degli autobus oppure finire la serata.
Fa freddo, ti porto alla macchina, le disse.
Dentro sentì una lama istantanea come se la sera fosse diventata di ghiaccio. Non voleva separarsi da Cati, eppure era quello che aveva appena proposto. Spesso gli capitava di andare incontro volontariamente a ciò che non voleva, di suicidare da solo i suoi veri desideri.
Anche lei perse per un attimo la luce, ma come per esercizio di mitezza sorrise e ammise di aver freddo. La testa le girava un po' per il vino. Posso appoggiarmi a te?, gli chiese mentre gli prendeva il braccio come se fosse un anello da ormeggio.
Lui cominciò a camminare rigidamente, gli risultava di un'intimità mostruosa quel semplice fatto che i loro due passi, così diversi per lunghezza di gamba, ora di accordassero perfettamente, scivolassero lungo la strada buia in mezzo a tutto quello spazio da percorrere senza incepparsi.
Lei ora stava in silenzio, e a lui mancavano gli appigli, mancava la baia, mancava la torre e anche il baretto era lontano, mancava la luce che mantiene lucidi, mancava la scarsa gente del lungomare. E così improvvisamente, come un orologio che in un istante decide di fermarsi perché la batteria si è stancata, lei si bloccò, piantò i piedi parallelamente e tirò leggermente l'anello dell'ormeggio a sé; in un unico movimento impose a quell'anello una lievissima rotazione, e così lui si trovò senza previsioni di fronte a lei, che ora scioglieva l'ormeggio e avvolgeva entrambe le braccia dietro la sua nuca, e si faceva morbidissima, arrendevole, bella come in una fiaba, si alzava sulle punte delle scarpe nere, un po' alte, con una grazia da ballerina, tirando indietro la testa e i capelli castani con gli occhi già chiusi, ora inclinando verso destra la testa e buttando fuori dalle labbra un lieve fiato caldo nell'atto di schiuderle. Così abbandonata, come se lui fosse il principe salito sulla torre, gli chiedeva un bacio, e lui percorse pochi lentissimi millimetri sino a sfiorare la sua pelle profumata, percepire quel fiato caldo femminile, varcare la soglia della sua bocca e depositare nel suo morbido interno tutta la tenerezza, la dolcezza, l'intimità, di cui era capace.

Quando la guardò di nuovo negli occhi, questa volta senza timore, capì tacendo che di quella donna che stava stringendo forte, di quella donna abbandonata a lui, di quella donna nei cui occhi si stava perdendo, era innamorato.
Le disse, guardandola serio e insieme lieve, come se la rivelazione l'avesse reso libero: "Tesoro mio...".

*

Gina aveva gli occhi annacquati, remissivi. Lui le teneva il muso nel palmo ampio, facendole ciondolare la testa dolcemente. La cagna muggiolava docile, come denunciando l'immeritatezza di quel contatto benevolo.
Ogni volta che lui si fermava a dormire da Cati, la cagna mostrava sospirando un rassegnato disappunto: la tenevano fuori della camera da letto, e la mattina se ne andavano festosi senza di lei. Bastava però che lui facesse quel gesto, trattenendo la tristezza canina nel palmo della mano, quell'atto di confidenza e consolazione, perché la cagna tornasse ad accettare il suo posto nella casa.
Sebbene lui mostrasse con la postura una presenza rigida, severa, aveva per la Gina di Cati una certa comprensione, quasi una tenerezza. Il sentimento che le riconosceva aveva la stessa qualità del rispetto implicito che lega un fattore alla cagna: l'uomo la cerca ogni mattina per fare il giro della proprietà, e la bestia gli dà cuccioli che saranno venduti e una fedeltà sottomessa, in cambio della tiepida sosta accanto al braciere, la sera, quasi sui piedi del padrone, prima di essere rispedita fuori.

Non era semplice vedersi. Abitavano a duecento chilometri di distanza. Lei lo chiamava ogni giorno prima dell'ora di cena. Cosa stai preparando?, dove mangi oggi?, gli chiedeva, variando di poco le domande. Lui rispondeva docilmente, sentendo che a lei importava veramente sapere qualcosa di lui, consigliarlo su piccole questioni, partecipare a distanza alla scelta dell'insalata. Certo, non l'avrebbe mai chiamata dal supermercato per chiederle come si prepara la salsa rosa, e lei non era quel genere di donna, anche se avrebbe sicuramente conosciuto la risposta. Però anche lui, forse per non sembrare troppo ostile più che per reciproco piacere, cercava un modo per tirarla dentro la sua vita, dentro il quartiere che percorreva, nei negozi che frequentava. La sua esistenza era molto ripetitiva, si vergognava in fondo della curiosità di Cati: preferiva non raccontare, perché rimanesse una qualche supposizione di mistero. Ogni tanto sui tristi muri del quartiere compariva qualche nuova scritta, un grido d'amore o un graffio di rabbia; allora lui fotografava il messaggio e lo inviava alla Cati via telefono, perché ne potessero ridere insieme: "Pallino, perdonami". In fondo, quello che lui raccontava di sé a lei, non era niente di personale, erano frammenti di storie d'amore altrui, di vendette o pentimenti a cui non partecipava.

Un giorno lui ebbe un pensiero fermissimo in testa, sin dal mattino, un'idea lucida e fredda come un puntale di ghiaccio. Avrebbe lasciato Cati. Dentro di sé ne conosceva la ragione. Durante l'ultima telefonata aveva sentito nella voce di lei una nota meno fresca, un distacco appena percettibile. Ne aveva ricevuto un'impressione sgradevolissima, che aveva acceso nelle sue tempie un allarme immediato. Quella settimana non aveva avuto foto da spedirle, gli innamorati avevano forse cercato altrove muri vergini. E lei doveva aver intuito l'inconsistenza della sua vita, oltre le scritte e le battute su Gina. Era rimasto insonne tutta la notte, e la massa di pensieri aveva scavato in lui una voragine di dispetto che ora l'orgoglio si premurava di colmare. A lui restava comunque il potere di decidere di quella storia, di rifiutare la Cati. Decise che dall'indomani, alle 9 in punto, dopo il veloce scambio di sms del risveglio, lui non l'avrebbe più chiamata, non l'avrebbe più degnata di un segno di vita, sarebbe sparito.
Una parte nascosta, remotissima di lui, gli diceva che quel gioco era un puro bluff: come mostrarsi tris d'assi pur continuando ad essere una cattiva mano.

Dopo quattro giorni, lei aveva smesso di cercarlo. Una tristezza profonda le scavava gli occhi. Mangiava pochissimo e dormiva male. Sapeva che non gli era successo niente: aveva trovato sulle pagine gialle digitali il numero della panetteria da cui lui si riforniva ogni mattina, e con una scusa qualunque era riuscita a scoprire che i suoi passaggi erano stati regolari. Dunque aveva capito bene: a lui non importava più niente di lei, gli era venuta a noia. Cercava nella sua testa le frasi dette che potevano essere state fraintese, le offese involontarie, le allusioni sgradevoli. Non le sembrò però di averlo provocato o soffocato. Solo la Gina si mostrava sollevata, ora che la padrona passava il sabato in casa, parlando con lei da tutte le stanze. Quando però Cati le poggiava la fronte sul dorso singhiozzando a lungo, come se fosse il muro del pianto, le si spezzava il cuore di animale da branco.

Trascorsero così due mesi di vita in parallelo. Non passava giorno in cui lui non pensasse a lei e lei non pensasse a lui. E più si stordivano con risate e impegni nuovi, più grande era la fedeltà con cui si accompagnavano attraverso la giornata.

Un giorno lei si vestì meglio del solito, indossò le scarpe della festa, diede una pacca sul dorso di Gina e disse: "Andiamo, ti porto a fare una passeggiata". La caricò in macchina e la condusse per la campagna umbra diretta a ovest verso il Lazio, guidando spigolosa, e a metà strada tirando giù il finestrino per meglio vedere la prima stella della sera le gridò guerriera, dalla sua postazione al volante: "Ti porto a fare un giretto al mare!".

Solo quando fu davanti al portone, si rese conto che era venerdì sera. Forse lui era uscito con gli amici. Non l'avrebbero trovato in casa e lei e Gina sarebbero rimaste fuori ore e ore ad aspettare. Sembravano inconsolabili, lì dritte davanti al palazzo, con il muso lungo. Cati non riusciva a muoversi. Non sapeva più perché le era venuta quell'idea, cosa aveva pensato di poter risolvere. Non aveva il coraggio di suonare, e restava lì piena di senso di miseria per se stessa. La cosa più sensata da fare le pareva quella di tornarsene in macchina, e attraverso le curve di nuovo a casa, in Umbria, per stramazzare sul letto. Invece si mise improvvisamente, in modo inaspettato anche per lei, a ridere. Si premette le mani sulle tempie come a raccogliere concentrazione, poi con un movimento spavaldo del capo si buttò indietro i capelli, afferrò il guinzaglio della Gina e le disse, come parlando a una sorella: "Non volevi ululare alla luna sul mare? Andiamo". E così si incamminarono in discesa verso il lungomare, entrambe soddisfatte. Perché, in fondo, non era successo niente. Solo l'idea di trovare l'uomo che ancora amava con un'altra donna in casa, le aveva trafitto il cuore con l'acciaio. Per cui ora poteva dire: non è successo proprio niente... Lei e Gina avrebbero fatto una breve passeggiata sino alla torre, e poi sarebbero tornate a casa, nel loro nido sicuro, senza ferite.

Dopo la seconda curva, appena oltrepassata l'insegna del negozio di articoli sportivi, prima della svolta a sinistra per scendere in spiaggia, lei lo vide, e certamente lui vide lei nello stesso istante. Cati strinse forte l'impugnatura del guinzaglio, e procedette. In testa mille possibili risposte si sovrapponevano, perché sicuramente lui le avrebbe chiesto irritato: Che ci fai qui? Avanzarono uno verso l'altra come se le gambe avessero deciso da sole la direzione e non lasciassero spazio a discussioni. Quando lui fu abbastanza vicino, lei si accorse del suo sorriso dolce, degli occhi festosi: era contento. Non chiese niente. Furono vicinissimi in un attimo e si abbracciarono quasi con un gemito, con una commozione struggente, come tornando a casa e trovando tutto al proprio posto, con lo stesso odore di bucato e i fiori in tavola. Baciarsi fu la scoperta di un abisso nero, uno spazio immenso che si allargava nello strettissimo punto di contatto delle bocche, che li risucchiava e li portava dentro il buio primordiale, prima delle amebe e degli organismi unicellulari, nel tempo pre-cosmo dove loro erano senza nome, puro, densissimo, sconfinato amore.

La Gina si agitava attorno a loro e tirava. Era domenica mattina e il bar era pieno dell'odore di brioche fresche. Per la prima volta lui si faceva vedere in giro con lei nel suo quartiere. Si era sempre chiesta come mai questo non fosse avvenuto con maggiore naturalezza. Lei era il tipo di donna che intuisce le motivazioni, ma si ferma prudente ad un certo punto, perché non vuole vedere oltre. Se ne andò presto, con un senso di felicità e insieme di disagio: come se capisse che quelle passeggiate domenicali, con lei e il cane, fossero per lui un sacrificio troppo grande, l'assaggio di una piccola morte, di una noia.

Aveva in mente la precisa immagine di loro due che facevano la spesa insieme riempiendo il carrello di scatole di cibo per cani e di biscotti, i biscotti da mangiare insieme a colazione. La scena le dava un terrore freddo, vi percepiva lui distante, annoiato, con le pupille ostili di chi subiva un torto, come se quella ripetizione gli dovesse venir risparmiata, perché a lui giungesse del rapporto solo un'eco irregolare, intermittente e, soprattutto, lontana.

Fu quindi per un estremo atto di comprensione che, una volta a casa, non lo chiamò più. Riconosceva anche in se stessa il desiderio della pena. In fondo quella tensione estrema le piaceva. Si teneva nel cuore un tesoro grandissimo, un senso di perdita e di struggimento, una mancanza, un'attesa e una volontà di resistere. Lui non smetteva di abitare nella sua testa, nelle gambe, nei vestiti. Preparando la colazione o la cena, d'improvviso lei doveva fermarsi e tenersi il cuore, che sentiva gravido, straripante. Sorrideva allora come una donna che abbia superato una fitta più forte e riconosciuto che è il bambino a muoversi dentro di lei. Così Cati non aveva bisogno di chiamarlo, perché amandolo lo teneva presso di sé.

Passò un mese. Un giorno Cati si guardò allo specchio e si percepì spenta, molto meno bella di quanto si ricordasse. Aveva gli occhi malinconici mentre una voce dentro le tempie interrogava: Cos'è l'amore che non fertilizza il campo?

Cos'è un sentimento senza la realtà che gli dia forma?

Davanti allo specchio, Cati pianse per la propria miseria. Aveva in sé un amore grandissimo, ma quel sentimento la rendeva più debole. In quel momento sentì che mai, mai lui le avrebbe detto: Cati, tu sei la mia donna.

La Cati è una bella, una di valore, le dicevano gli amici. Ora, vestita di nero, sottile come un giunco, non sapeva più. Inabissandosi nelle verità del suo sé svuotato, senza qualità, comprese con uno stacco di nausea che uomo e donna si amano per astrazione, per onore, per educazione, per la possibilità di migliorarsi in una direzione che altrimenti non sarebbe possibile, e che invece il sentimento puro in sé, l'amore in sé accecante, radioso e mortale insieme, è l'illuminazione impietosa su una condizione umana di irrimediabile mancanza.

Lui e lei erano seduti su due rocce sospese nel vuoto dell'universo, con le braccia ad anello attorno alle ginocchia rannicchiate: si guardavano a distanza, senza parlare, come due fratelli tristi che la sorte abbia separato.

*

Aprì il cassetto e infilò la mano tastando il fondo sino all'angolo destro. Ne estrasse un foglietto piegato in quattro. Glielo aveva scritto la sua Cati qualche settimana prima. Lui l'aveva trovato un giorno infilato in un calzino ben piegato nel comodino.
"Tesoro mio, ero una bambina. Mi ostinavo nelle cose belle, perfette. Credevo nei binari dritti. Ora non so più. M'importa solo delle cose semplici; dell'amore. La paura sentimentale mi scava ombre sotto gli occhi. Basta però rivederti e lo sguardo si fa cielo stellato, la bocca fiore; il letto diventa un'altalena: dondola, dondola, da una nuvola, sull'acqua, in un silenzio-mare. Se solo tu mi chiami, si fa splendido il cielo, appaiono nuove lune e comete, e niente più importa. Se solo tu mi ami, svaniscono le distanze e le fatiche, le paure: solo il tuo nome conta."
Il vuoto che percepiva nella sua stanza era micidiale. La Cati non lo voleva più. Aveva avuto forse noia di lui e della sua misura corta nel progettare. Un tempo lei lo chiamava tesoro mio, lo guardava con certi occhi fenomenali, più belli di un lago, più sereni di una sera di bosco, quando a giugno le lucciole fanno festa.

*

Una mattina Cati aprì gli occhi e si sentì guarita. Non avvertiva più quel dolore depositato fra le costole, negli alveoli. Si era arresa.
Si lavò in fretta, si vestì in modo semplice, prese Gina e si mise in macchina. Rifece la strada verso il Tirreno. Ad un incrocio si fermò e comprò dieci mazzi di fiori da un vecchietto scuro che aveva l'ape per negozio.
Arrivò al cimitero di periferia prima di mezzogiorno. Gironzolò per i due piani e si spinse sino all'ala nuova, dove sempre più freddi si facevano i marmi. Individuò nove lapidi dove deporre i fiori. La pietra portava inciso lo stesso cognome del suo amato. Uno almeno fra quegli estinti sarà stato suo antenato, e più sensibile alla pena dell'innamorata che a capo chino portava i fiori. Commossa per il suo stesso sentimento di resa, mormorò nove volte la stessa preghiera: Fa' che lui stia bene e che noi possiamo stare insieme; altro non chiedo.
Il decimo mazzo lo infilò nel contenitore di plastica sopra la tomba quasi centenaria di una giovane donna che si chiamava come lei e che era morta a ventinove anni. Alla foto in bianco e nero di quell'antica, mesta Caterina, non rivolse una preghiera per sé, ma un saluto da una donna malata d'amore a un'altra che un tempo, forse, aveva patito in ugual misura lo stesso male.
Lei e Gina se ne andarono senza neppure passare dal paese. Puntarono senza fretta verso Perugia, dove Cati aveva commissioni da sbrigare. Lungo la strada si fermarono dai Capannoni, che aveva i tavoli fuori: per pochi euro vi si poteva mangiare una minestra accompagnata da vino nero, e alla Gina veniva allungato sempre un osso. L'ultima volta erano lì in tre.

Qualche volta desiderava pensare male di lui. Non l'aveva cercata mai. Com'era stato possibile arrivare a non sentirsi più? Per orgoglio. Era sicura che lui aspettasse un segno della Cati innamorata. A sua volta lei voleva mettere alla prova quell'amore che lui aveva dichiarato. Si chiedeva se l'orgoglio non potesse essere ammansito dal desiderio di stringere la propria donna.
Se ridursi all'ingombrante accidente della vita così com'è, geolocalizzata e casuale, è esistere, lei avrebbe preferito spogliarsi di ogni desiderio e prendere la prima nave in porto. Fuggire dalle sue stesse illusioni. Se i maschi, si diceva, capissero che questa misera messinscena li degrada, e indossassero un nuovo onore, se si buttassero in ogni cunicolo di vita trascinandosi dietro una donna per insegnarle cose nuove, e riceverne grazia! Se lui mi amasse abbastanza da cambiare, diventare migliore!

Triste era quella minestra, e amaro il vino. Risalì in macchina buttandosi come un sacco sul sedile, sistemandosi come se fosse un corpo di vecchio da montare su una barella. Nello specchietto intercettò lo sguardo dolce e buono della Gina, e perse ogni coraggio. "Amica mia, siamo sempre sole, io e te".


"Se solo l'indifferenza copre il male, solo il male spazza l'indifferenza". Non leggeva un libro da tempo, le sue ore libere se ne andavano tutte uguali davanti al computer insieme alle arachidi e al vino. Quel giorno gli era capitato in mano un libro di memorie, e nell'atto di sfogliarlo aveva colto fra tante quella frase.
Decise all'istante di farle male, e cominciò a pensare nei dettagli come, per buttare giù quella dura sordomuta indifferenza che lei gli manifestava da due maledettissimi mesi.

Esistono al mondo infiniti modi per dire l'amore. Mandando messaggi attraverso Radio Londra. Cantando sotto il balcone. Intrecciando margherite in una corona. Incidendo i nomi sulle vecchie cortecce. Tenendo stretto un gomito mentre si sfiatano sul viso decise le parole: "tu stai con me".
Oppure torturando.


Di nuovo la sensazione di essere un corpo vuoto. Portarsi a letto era diventato difficile. Come si fa a spegnere una giornata già spenta? Si teneva a volte i fianchi con le mani fredde per sentire la carne magra sulle ossa. Si metteva una mano sul ventre piatto e passava l'altro palmo sul seno asciutto, privo di fremiti. E finiva con l'intrecciare le braccia sopra le costole, ancorando le dita dietro il collo chino. Il suo corpo stava tutto lì, in quell'abbraccio muto. Quel mucchio di ossa e pelle appena battuto dal passaggio di linfa e sangue era come un regalo scartato e riposto in un angolo, così freddo che infilarlo a letto le faceva pena. Certe volte le veniva voglia di lanciarsi in un'euforia indiscriminata, di cercare i suoi amici, darsi al vino e a carezze casuali, diventare strumento di indagini, di cadute libere. Certe volte metteva la musica a tutto volume e saltava sul letto, per darsi vibrazioni. Nulla però poteva contro l'incantesimo che le era stato fatto. Il suo corpo era di quell'uomo che non la voleva più, e solo lui possedeva la formula magica per riportarla in vita, per gonfiarle il seno, inseminare i fianchi, farle sbocciare boccoli nei capelli e accendere falò di San Lorenzo negli occhi.
Voleva indietro la Cati che brillava al sole, frangendo la luce in ponti-arcobaleno. La voleva per buttarla al collo di quell'uomo e farle scalare così aggrappata tutte le montagne di paura.

Il lunedì successivo fu la giornata più difficile di quei due mesi. L'indomani sarebbe stato il suo compleanno. Comprò una bottiglia di amarone, ma si augurò di non berlo e di scivolare invece in un lungo sonno inconsapevole: sarebbe bastato un bicchiere di vino per bruciare l'involucro di difesa, liberando nell'aria sfiati di tristezza velenosa.


La Gina aveva gli occhi dolcissimi della pena. Il suo corpo duro si era teso ad arco, la coda infilata in mezzo alle zampe quasi chiudeva l'anello col muso chiuso sul petto. La lingua usciva esitante a rassettare i baffi dalla saliva secca e a mendicare un po' d'aria. Lo guardava dal basso e sembrava un maiale pronto all'esecuzione. Lui le assestò un primo calcio sul ventre, non sopportando quella posa contratta. Al primo guaito ne seguì un altro quando lui la percosse con il manico dell'ombrello. La cagna si alzò a metà. Lui le fu di nuovo addosso con un altro calcio sulle mammelle gonfie e poi un altro sul muso. La Gina guaiva penosa, ma non riusciva a reagire, stava sotto le botte come accettando un destino della specie. Più lui fissava quegli occhi annacquati, sottomessi, più diventava furioso. Alzò l'ombrello sopra il capo e lo abbatté sulla bestia con tutte le forze, più volte, sinché non vide uscire il primo sangue, e il corpo percosso e massacrato sollevarsi negli ultimi singulti di vita. Finì con un calcio svogliato sul ventre della bestia esausta, che un poco gli fece scendere giù in petto e smaltire il rossore che gli gonfiava il viso.

Urlando, Cati uscì dall'incubo, atterrita e piena d'angoscia. Si precipitò in cucina a cercare la Gina. Aveva la gola secca e gli occhi dilatati. Nel buio ancora spesso di sonno, un sudore freddo le svuotava le tempie. La trovò nella cuccia, salva nel suo sigillo a ciambella, e scoppiò a piangere.


Era dunque martedì, giorno del suo compleanno. Prese il telefono e lo chiamò. Lui non rispose.
Vide la chiamata e rimase un tempo troppo lungo a pensare se rispondere o no, a calmare il sangue nelle tempie. Aveva ancora questo potere: di decidere di lei, di reggere la distanza e la sofferenza. Se avesse risposto, la storia avrebbe preso un altro corso. Avrebbero fatto l'amore per un giorno intero, tutte le notti sfinendosi. Aveva voglia di Cati, del suo corpo morbido, del suo profumo, della sua risata, dei suoi occhi chiusi persi nell'amore profondo, di Cati su di lui che premeva le anche su quel bacino d'uomo aperto al piacere, di Cati che annullava ogni millimetro di distanza, spingendo l'aderenza a una tensione massima, di Cati che quasi gli faceva male. Avrebbero intrecciato le mani per coordinare il moto ondoso gonfio, pieno, si sarebbero guardati negli occhi come naufragando su una baia lunare, e lui avrebbe sentito una spinta fortissima verso di lei, le avrebbe stretto i seni, le avrebbe tenuto il bacino premuto, avrebbe detto il suo nome mille volte sino a morire in un'esplosione di sangue e ghiaccio sfogata dentro di lei.
Se avesse risposto, lei sarebbe divenuta la sua Cati e lui avrebbe imparato a diventare migliore. Lei gli avrebbe riempito la giornata di fiori, di appuntamenti, di telefonate, di corse con la Gina, di scampagnate, di spese nelle botteghe, di cene cucinate per bene, di visite agli amici, di bigliettini nei calzini, di odore di biscotti, di gelosie improvvise, di prodotti di bellezza nel bagno, di cereali nella dispensa, di musica per la casa, di infinito moto. Lei era una donna capace di dedizione, di amore lieve e dolce, di presenza delicata, capace di amicizia. Se avesse risposto, avrebbe detto di sì a tutto questo, alla paura di perderla, all'angoscia di essere tradito, a una pienezza nuova da reggere. O forse avrebbe potuto rimandare ogni scelta. In fondo la sua vita asciutta gli stava bene addosso.
Fissò il cellulare, se lo rigirò fra le mani. Si sentiva un uomo improvvisamente felice, redento da se stesso, dalla sua stanchezza abissale.
Scrisse: "Ci sono", e inviò.


Il racconto di questa storia finisce qui. Non so andare oltre. Non so dire cosa capitò ai due personaggi, a quali patti scesero. Di loro non so dire il nome, né il male, né il bene. Di questa storia, capisco solo che la Gina vide tutto in anticipo, e ne soffrì. Vide Cati morire dietro una felicità indisponibile. Vide lui convincersi di una privazione necessaria. Entrambi certamente restarono a lungo senza città, senza definizioni. Ma forse alla fine fuono capaci di amore. L'ultima scena che so immaginare, è lui che la fa montare sulle sue spalle e comincia a correre a perdifiato sui prati in salita, facendola ridere e sobbalzare, cantando le canzoni inglesi più rotte e oscene. Lo vedo capitolare affondando nell'erba con lei appoggiata al suo petto, continuare a ridere con la bocca grande, libera, e gli occhi che a malapena reggono il sole, un sole caldo, folle, splendido, che fa del prato un deserto di fiori e fichi maturi.

lunedì 7 febbraio 2011

Viaggio romano

La cosa più romana del mio fine settimana a Roma è stato un viaggio involontario con una comitiva capitolina.

Quello di fronte a me indossa pantaloni a fantasia scozzese leggera profilati di celeste e bianco, scarpette di camoscio grigio-blu, camicia fresca di bucato azzurrina e maglioncino di cotone bianco; la barbetta si rinforza sui lati, gonfiando le ganasce; i capelli, tendenti al biondo, sono tenuti dietro in un codino. 
Dal lato finestrino siede un altro, faccia alla Renato Zero, capelli più corti con la riga in mezzo, denti distanziati, occhiali con lenti grigio-fumo, risata alta, femminile, che ricorda un comico dal ritornello ossessivo "Chi è Tatiana?", pantaloni di fustagnetto, maglioncino grigio a costine, camicia grigetta, sciarpa annodata alla Bocelli, orologio importante.
Quello con il maglioncino bianco da skipper legge una rivista specializzata di moto. Parla con un terzo, occhialetti da bravo ragazzo, capelli perfettamente rifilati con leggera cresta caudale, maglioncino zip da cui emerge la camicia rigata rosa e bruno-castoro, borsello piquadro. Discutono di una carrozzeria - si occupano forse di macchine d'epoca - e di un certo cliente, citando cifre a tre quattro zeri; commentano la rivista di moto a cui sono abbonati e la velocità di questa freccia rossa. Attorno sfilano i colli laziali, assolati, d'un verde-febbraio. I colori non sono ancora maturi, bisognerà aspettare giugno per i profumi macerati al sole, per la campagna esplosa. Ma pensando al grigio e piatto Brandenburgo che circonda Berlino, mi viene per contrasto un'immagine di campi russi, steppa, fili d'erba scoloriti, distanze ostili, case rigide su dura terra.
Quello con la sciarpa parla a un quarto, scherza su Lele Mora, canta un ritornello ironico e godereccio. Il quarto sta leggendo Quattroruote; ora dà una gomitata compiaciuta ad un quinto. Scopro che due blocchi di sedili sono occupati da questa comitiva di quarantenni romani, piacenti, sicuri di sé.
Ad un certo punto comunicano tutti insieme fra loro, occupano l'aria con le voci, si rimbalzano scherzi da un sedile all'altro: lo scompartimento diventa una piazza. Sembra di essere in un film di Opzetek. Si chiamano per cognome: Rossini, Marinelli. Parlano troncando tutte le parole, discutono la scelta della trattoria dove mangiare sabato.
Ora quello con il codino chiede le pringles e una bottiglietta d'acqua alla donna che spinge il carrello nello spazio fra i sedili, ma prima si passa una mano sui capelli, aggiusta la voce, gli viene fuori suadente, morbida.
Penso che l'Italia rimarrà sempre così com'è, e che appartiene a questa classe di persone, non ben tracciate, ai carrozzieri che intascano la metà dei guadagni in nero, che hanno la barca e seguono Valentino Rossi, agli assicuratori che indossano le scarpe di camoscetto, quarantenni single che non se ne andrebbero mai dall'Italia - se non per aprire un residence ai Caraibi -, perché l'Italia appartiene a loro.
Non illudetevi, commentatori dei nostri tempi che tentate teorie massime: imparate da quelli che fregano il fisco per dar prova di intelligenza e audacia, da quelli che vivono al sole consapevoli di non parlare alcuna lingua straniera, il cui estremo grado di teorizzazione può riguardare solo una strategia calcistica. Hanno imparato dalla mamma come vestirsi, vanno alle terme, fanno girare cifre sommerse, hanno un'idea di futuro possibile, senza macchie e senza ombre, e amano l'Italia, la amano così com'è.
E chi sta meglio di loro.
Ora uno dice: "Ammazza che silenzio su sto treno, aò!" e fischietta per compensare, con un certo grado di maestrìa allenata, la melodia di Cenerentola: I sogni son desideri...

Un milanese e un romano: non sono italiani allo stesso modo.
Mentre scrivo, siamo fermi da dieci minuti a Firenze. Uno dei romani batte sul finestrino: "'Nnamo!". Quello stesso controlla guardando fuori un uomo e una donna adulti, innamorati, avvinghiati su una panchina. "E basta mo'! So' du' ore che se baciano questi, mo' se consumano. Se stano a bacià da quando ce siamo fermati, stano da du' ore in apnea!". E mi fa ridere, mi devo nascondere la bocca dietro due dita.
Adesso si alzano in cinque, all'invito di uno di loro: "Oh, 'nnamo a farci un caffè". Su questo treno c'è per bar solo un rettangolino nudo con una macchinetta da caffè d'emergenza, ma loro avanzano nei loro pantaloni attillati che avvolgono le gambe muscolose, da antichi romani, avanzano per il corridoio del treno con la stessa baldanza che se fossero nel loro quartiere. Passando affianco a me, uno di loro mi dice di stare attenta ai tre che mi sono seduti attorno. Vorrei interrogarli, sapere cosa faranno a Milano, ma mi dico che in questo momento il più piccolo elemento femminile, la minima contaminazione alla violetta guasterebbe la perfetta scena iper-cinematografica tutta al maschile. Questi giovani uomini che ruminano la loro erba fresca di terra e calda di sole, che ripetono gli stessi scherzi di quando avevano sedici anni, facendo il verso agli annunci automatizzati delle ferrovie, non sanno di essere parte dei mali italiani che loro stessi denunciano. In fondo, però, solo per il fatto che riescono a ridere da due ore, che hanno trasformato la carrozza numero 10 in un teatro, che mi hanno fatto ridere, su questo treno che mi riporta nella dura Milano, li amo come se fossero compaesani ritrovati.



martedì 1 febbraio 2011

Fragile

nell'amore ero
papavero chiuso che sciogliendo la sua torsione
esplode

lunedì 31 gennaio 2011

VOCI - H.

"Io paragono il mio rapporto con l'Italia ad una storia d'amore infelice. Se stai con un uomo colto e bellissimo che continua a trattarti male ed a farti soffrire, a toglierti tutto per anni ed anni, forse è meglio cercare qualcuno di più tranquillo, che ti rispetti e cerchi di renderti felice. Per questo noi stiamo considerando di tornare in Australia. Cosa che non pensavo mai di fare... Chissà come andranno le cose".
 

VOCI - D. e C.

- Sì vediamoci! Io purtroppo mi sposto poco da F. in questo periodo, sia per ragioni lavorative (appunto stiamo aspettando che il progetto possa partire), sia per ragioni finanziarie... tra poco sarò sull'orlo della povertà :-)

- La soglia della povertà, la conosco bene: è uno stato che, se dura poco, può insegnare molto. Ma a lungo andare intristisce. Non ci si può muovere. Non si guardano più le vetrine, né i manufatti dell'uomo, perché non li si può acquistare, e così piano piano anche i vini, i pasticcini in vetrina, gli itinerari di viaggio, le calze di moda, le scarpe in saldo, le locandine del cinema, i libri in promozione, Wagner finalmente al teatro lirico... Si diventa indifferenti a tutto. Ci si indurisce, la giornata diventa senza consolazioni. Si deve restare in casa per non spendere: anche il biglietto della metropolitana diventa una voce di spesa insostenibile. Non si compra più il giornale, non si va alle mostre e naturalmente neanche in pizzeria, si aspetta che qualcuno si accorga dell'indigenza non manifesta e faccia un invito, un regalo. Se si hanno degli spiccioli si compra qualcosa ai bambini, perché loro abbiano ancora un senso di possibilità, di non privazione.
Ecco cosa è la povertà di una trentenne: io l'ho conosciuta quest'anno in Italia.
Se almeno mi trovassi in un posto bello, se almeno la natura mi potesse consolare, con i colori e i profumi; se almeno gli amici fossero più vicini e con loro potessi condividere una spaghettata serale: mi sentirei comunque ricca.


VOCI - O.

"Posso capirti ma non fino in fondo. Non ho figli e quindi i sacrifici e le rinunce riguardano solo me. Da soli è comunque più facile. Hai responsabilità solo verso la tua vita.
Amo questo paese, purtroppo: è questo che mi frega. Gli uomini che ho amato in questi anni, da veri pragmatici, hanno lasciato tutti l'Italia. Io invece sono rimasta a fare l'eroina romantica. Isolata per giunta perché sono poco incline ai compromessi. Nessuno di loro mi ha chiesto di seguirli. Adesso hanno famiglie e vite più o meno serene altrove. Pensano all'Italia, ma il disgusto e la delusione che provano impediscono loro di tornare. Anche a me sembra sempre di provare amori a senso unico e inespressi. Lavoro su me stessa per cercare di non perdere l'equilibrio. Sogno sempre di cadere..."

giovedì 27 gennaio 2011

Alla vigilia dell'occupazione

Nei mesi che precedettero il suo arresto e la deportazione ad Auschwitz, Irène Némirovsky scrisse febbrilmente le prime due parti di un'opera che doveva comporsi di cinque volumi. Quei primi due volumi sono riuniti in Suite francese, che si apre con la fuga in massa dei parigini alla vigilia dell'occupazione.

"Malgrado la stanchezza, la fame, la preoccupazione, Maurice Michaud non si sentiva troppo infelice. Aveva una struttura mentale particolare, non attribuiva molta importanza alla propria persona: non era, ai suoi occhi, quella creatura rara e insostituibile che ogni uomo vede quando pensa a se stesso. Per quei compagni di sventura provava pietà, ma una pietà lucida e fredda. Dopo tutto, pensava, queste grandi migrazioni umane sembrano governate da leggi naturali. Certi periodici spostamenti di massa probabilmente sono necessari alle popolazioni come la transumanza lo è per le greggi. E trovava in questo uno strano conforto. Quella gente intorno a lui credeva che la sorte si accanisse in particolare su di loro, sulla loro disgraziata generazione, ma lui ricordava che gli esodi si erano sempre verificati, in ogni periodo. Quanti uomini erano caduti su quella terra (come su tutte le terre del mondo) piangendo lacrime di sangue, fuggendo il nemico, lasciando città in fiamme, stringendosi al petto i figli..."

Irène Némirovsky, Suite francese
(trad. Laura Frausin Guarino)
Ed. Adelphi

venerdì 14 gennaio 2011

La fontana di Avetrana

Sono l’unica donna su questo pullman dell’Ilva. È l’ultima corsa. Stiamo tutti seduti a distanza, occupiamo lo spazio a file alterne. Questi uomini esausti vanno a casa. Sono caduti nel sonno, uno a uno, senza scambiarsi parola. La fabbrica stanca. A lato scorrono distese buie di ulivi. È immensa la campagna qui, da mare a mare.
Anch’io sono stanca.
A Taranto ho lasciato un amore.

Andavamo ogni pomeriggio al bar sport in piazza Vittorio Veneto, ad Avetrana. La gente del posto ci riconosceva: alla controra noi ci davamo convegno sotto l’ulivo, che occupa una posizione asimmetrica nella piazza. A volte mi è capitato di dover aspettare per un’ora il suo arrivo. La piazza era arroventata, in quella luce agostana. Io e i tre cani randagi del paese stavamo come capre nel sole, con gli occhi inespressivi, annacquati. Allora m’avviavo verso la chiesa, e oltre, verso il torrione, nelle viuzze senza passaggio; da qualche uscio proveniva odore di melanzane fritte, e più spesso di salsa. Le case al meridione sono a volte poco più che garage: con un’apertura al piano della strada e uno sbocco sul retro, poco ventilate, senza tetto, decapitate. In certe ore per le vie non si sentiva anima fiatare. Poi tornavo sotto l’ulivo, nel sole pieno, e lì arrivava lui, ad un certo punto. Se ci ripenso ancora oggi travengo. Quando eravamo a un metro uno dall’altra, mi voltavo verso il bar ed entravo per ordinare la granita al limone, servita ancora in coppa d’acciaio come una volta. Sentivo la felicità riposare nello stomaco. Per qualche minuto non si parlava, credo stessimo entrambi assolutamente contenti. Scherzavamo col proprietario del bar, prima ancora di dirci ciao.
Da Avetrana andavamo dunque al mare e per tutto il pomeriggio si rimaneva così, senza turbamenti. Se ripenso a quei giorni capisco che la felicità era quella totale spensieratezza, la placida inconsapevolezza del tempo, una pia indifferenza verso i piccoli inconvenienti o verso il posto in cui si era. Allora la felicità era quando il mio tarantino mi diceva: "Io sto qua perché stai tu".
Successe un giorno che ad Avetrana trovammo festa grande. Era il 16 agosto. Nella piazza c’erano drappi e festoni nuovi che ornavano il palazzo; a ridosso di questo si arrossavano i tizzoni su cui grigliare e stavano pronte tavolate di pittole e panini. Fu la prima volta che vedemmo donne in giro ad Avetrana. Il bar era avvolto da un’insolita euforia: erano tornati gli emigranti per la festa del paese. La famosa granita al limone richiamava molti avventori e ora, oltre ai frequentatori annuali – vecchietti che giocavano a carte o stavano, con le camicie aperte sul petto, al tavolino, insultando ora uno ora l’altro dei compari – c’erano volti nuovi, forestieri, urbani. Alcuni musicisti provavano sul palco la resa acustica. Persino i tre cani randagi s’animavano alla festa, giravano in cerchio con la bocca larga, contenta. Certamente l’odore della carne alla griglia, il fumo, l’improvvisa vitalità umana li avevano eccitati, facevano giostre e feste d’intorno alla piazza.
Io e il mio tarantino anche allora non ci fermammo per più di un’ora. Il mare era come una necessità. In quella spiaggia, non distante da Campomarino, la poca gente si fermava sino al tramonto; con lo scurirsi dell’aria rimanevamo soli. Arrivavano da lì a poco i pescatori-meditatori: due o forse tre uomini con la canna da pesca, inghiottiti presto dal buio. A volte uno di loro si portava appresso i bambini, e mi compiacevo di una così pura educazione alla poesia, fatta senza parole. In quell’agosto vedemmo spesso spuntare la luna. Era uno spettacolo mirabile. Accadeva d’improvviso che uno di noi due si accorgesse della sfera dorata che saliva dal mare, alla nostra sinistra. Stavamo di tanto in tanto interi minuti senza parlare, concentrati sull’ascesa portentosa di quell’astro che, lentamente, sbiancava.
Allora a volte io gli dicevo d’improvviso, emergendo con la voce dal buio: "Tu … sei una bella cosa."
Facevamo poi l’amore per ore, forasticamente, tagliando fuori dalla coscienza l’idea del tempo e del sonno perduto. Trasalendo coglievamo con un certo stupore il primo chiarore che dilegua la notte, e allora,
improvvisamente riemersi al tempo, ma molli nei nostri dolci e maturi odori, ci rivestivamo disordinatamente, e con l’intenzione degli occhi, in quell’assoluto buio campestre, spingevamo l’automobile verso le prime luci e le prime case di Avetrana, sino alla piazza della fontana, dove un baretto, quasi sempre vuoto, aveva già aperto per il turno più mattiniero.
Me ne andavo, allora, con un pasticciotto caldo nel sacchetto, e già prima di avviare il motore mettevo la radio a tutto volume per rimanere sveglia. La campagna che dovevo attraversare era solitaria e immobile e mi pareva miracoloso che nessun rumore o passaggio umano distraessero il mio stato di intatto benessere.
In quei giorni scoprivo Taranto. Capitava infatti che non ci incontrassimo ad Avetrana, ma che lui mi ospitasse nella sua città. Poteva accadere che io dovessi andare a Montemesola per certi affari, e allora al ritorno mi fermavo a Taranto. In quelle zone, a percorrere la strada di vigneti che conduceva in salita verso il paesino di quattro anime, sempre mi prendeva un incantamento. La vertigine dello spazio aperto, di cui non facevo esperienza da tempo, e così modulato, senza alture a spezzare l’orizzonte, mi portava in una dimensione rallentata, pacifica, dove i sensi si distendevano. Provavo allora un improvviso, dolcissimo addomesticamento a quei luoghi: cadevano le mie resistenze urbane, e nordiche. Pensavo per contrasto alle musiche struggenti del Lohengrin, al Liebestod di Isolde, a certi accordi lunghi e tesi del Ring. Mi sembrava che nessuna ambientazione potesse essere più adatta a inscenare Wagner di quei chiaroscuri assolati, quelle aperte e sensuali, assolute spianate della Magna Grecia, arretrate e mitiche. Qui forse i registi avrebbero dovuto porre Elsa, a cielo aperto, fra i muretti a secco e i campi gialli, le case bianche e improvvise di Martina Franca; qui, in una buca della Valle d’Itria, avrebbe dovuto suonare il suo canto continuo l’orchestra, posta fra pietra e cielo, sotto la luce estrema, vitale e rapace, fatale, del basso Sud.
Da Montemesola, giungendo a Taranto, per pochi istanti mi trovavo sospesa sui due mari: mi pareva da quel ponte di avvistare una città favolosa, sorta su un’isola ionica in un tempo mitico lontano. Altre volte mi capitava di arrivare con il pullman: questo, dopo aver depositato gli uomini dell’Ilva davanti ai maleodoranti, surreali, mostruosi stabilimenti dell’acciaio, mi conduceva al porto, e prima d’arrestarsi al capolinea, voltando, mi permetteva di scorgere in un punto preciso l’isola con la chiesa di San Domenico, le mura, i moli e le vecchie case chiare.
La prima volta che ho visto Taranto vecchia era sera e ho creduto di trovarmi in una città fantasma. Il mio tarantino mi stava affianco e penso che lui guardasse quelle case ferite, abbandonate, puntellate, i balconi ceduti al crollo, le scalette sbucanti in piazzette vuote, le finestre incorniciate di sterpi selvatici attraverso i miei occhi. Era un intero quartiere, o meglio una piccola città, senza colore, senza riconoscimento, priva di attività commerciali e di traffici (se non quelli sotterranei di droga), fuori del tempo. La decadenza delle case, dei palazzi antichi, l’irregolarità dei profili delle abitazioni, che sovrapponeva capitelli a inferriate malferme, monofore ad arcatelle, lesene greche a cornici franate mi sconvolgevano. Dai muri spuntavano piante tenaci, alberelli; era un paesaggio urbano forastico, arcaico, pietroso. Mi chiedevo come si potesse lasciare un simile gioiello all’abbandono: quei bellissimi palazzi rivolti al mare, alle navi, al porto, quelle chiese pronte a salpare! Io credo di aver amato Taranto amando il mio bel tarantino.
Proprio all’ingresso del quartiere isolano, in piazza Fontana, in via Porto, dietro alla graziosa Torre dell’orologio, stavano certe donne al balcone: parlavano fra loro da un caseggiato all’altro, oppure immobili come gechi seguivano in basso gli scarsi traffici di gente, secondo l’abito meridionale di stare alle porte, seduti alle seggiole, alle finestre, nel perimetro esterno delle case, guardando il passaggio dei vicini, aspettando qualche novità, con lo sguardo ovino, che a tratti si fa a punta, critico.
Io amavo tutto questo e immaginavo la mia vita lì, fra quelle strade. Progettavo di prendere due stanze in via Porto, e di aprirne una agli allievi di pianoforte. Volevo suonare a finestre aperte, arpeggiare al mare che s’allargava laggiù in lontananza; e aprire l’altra stanza al mio tarantino, alla sua risata di grotta, muscolare. Con questi respiri lunghi, speranzosi, andavamo dunque a casa sua ad amarci, e nell’amore stavamo ore intere a guardarci, con gli occhi annacquati, rapiti da quegli slanci dei corpi, che da soli si cercavano festosi, gioiosi, tiranni. In quelle ore d’amore lui mi diceva d’improvviso: "Cinziè, sposiamoci!", per poi esplodere
appena un attimo dopo in una risata dissacratoria – cominciavano allora i primi segni di una sua intima contraddizione che mi lasciava nel più cieco disorientamento.
Sempre, dopo quelle notti goliardiche, scendevo al bar sotto casa, con i capelli sparsi, gorgonici, e mi godevo Taranto al risveglio, insieme al forte caffè locale. Lui invece dormiva sino a tardi: rifuggendo le ore di veglia assolate, riusciva ad accorciare il giorno, sembrandogli forse più semplice vivere di notte. Raccoglievo in quei giorni, nei momenti di lucidità che l’anestesia amorosa lasciava manifestarsi, delle impressioni sul suo modo di ritirarsi dalla vita, trattenendo i suoi talenti in periferia. Una volta mi aveva detto, con una serietà che non gli conoscevo, che lui, di fronte a un’avvisaglia di dolore, si dava ad un’immediata fuga: e mi era sembrato in contraddizione con la sua energia vitalistica, con la sua qualità umana eccezionale. A quel tempo però non mi crucciavo troppo, credevo che tutto potesse essere tenuto insieme con un semplice atto di volontà.
Il pullman dell’Ilva si è lasciato dietro il minuscolo paese di Monteparano con il suo portentoso castello – vi erano veramente cavalieri dove ora stazionano questi vecchi compari che si contentano di una birra e di un po’ di frescura? Cerco di fare il vuoto nella mia testa, di lasciarmi cullare da questo pio pullman. Domani ripartirò. Cosa ne è stato del mio sogno tarantino? Avevo creduto veramente nella possibilità di portare il mio pianoforte sull’isola, di farmi amici alcuni bambini fra quelle strade inospitali, di incontrare a sera il mio tarantino per offrirgli il vino sul balcone; mi ero vista sospinta da un sentimento radicato, positivo di vita: e bella, ariosa. Lo avevo aspettato per parlargli di questo. Mi ero appoggiata all’ulivo guardando i cani della piazza; era settembre e quel giorno il vento aveva una qualità nuova. Dentro avevo un sentimento mite e dolce, una speranza. Mi aspettavo di vederlo giungere da un momento all’altro con la sua andatura caratteristica, lanciando guizzi con gli occhi azzurro-cielo. Avremmo parlato di quello che poteva accadere dopo la mia partenza. Già mi vedevo a sistemare il monolocale in via Santa Monaca per due, a presentargli gli amici del bar Cento Stelle: volevo chiedergli di stare con me per un po’ a Firenze. Desideravo che vedesse indossare la mia biografia toscana, che mi vedesse urbana, efficiente nei miei molti impegni. Avrei però fatto quello che voleva lui: mi sarei compiaciuta di una sua spinta energica, di una volontà decisa che riguardasse entrambi. Aspettando cercavo un posto per lui nella mia vita fiorentina, e un posto per me nella sua vita tarantina. Intanto non arrivava ancora, forse aveva trovato traffico a Manduria. Mi ero dunque staccata dall’ulivo e dopo essermi trascinata per i quattro lati della piazza irregolare, dopo aver bevuto un caffè in ghiaccio al bar sport e aver scambiato due chiacchiere con il barbiere, mi ero avviata alla piazza della fontana, dove lui era solito lasciare la sua fiat, separata da quest’altra piazza da una sola strada. Aspettavo ormai da un’ora e mezza e lui non si faceva trovare al cellulare.
Improvvisamente mi ricordai dei discorsi sulle fughe e sul rifiuto del dolore, e mi fermai. Mi prese allora un sentimento mortale di paura: un brivido freddo come l’acciaio mi trapassò dal capo lungo la schiena sino alle gambe sradicandomi dai nervi ogni volontà positiva. Mi sentii di colpo svuotata, gelida, esangue. Eppure il mio corpo lo aveva sentito innamorato, c’era stata una gioia folle nei nostri giorni tarantini. Dove sei? Fare un passo mi costò moltissimo. Mi abbandonai su una panchina e già sapevo tutto.
Quella sera andai ancora a Taranto. Non per cercarlo. Gli avevo scritto due messaggi e ora il mio orgoglio montava, resisteva. Nello sguardo vacuo mi sentivo l’offesa e la paura fredda. Dovevo però congedarmi. Restai qualche minuto sul molo a guardare l’isola con la città cintata. Le luci gialle la facevano apparire bella. Con un residuo di volontà, triste in tutta la mia fibra, distolsi lo sguardo e montai sul pullman. Gli uomini dell’Ilva e io eravamo, ognuno a suo modo, gravati, e stanchi.

Domani tornerò a Firenze.

Lui è stato un amore meridionale. Di quelli che si lasciano dietro a fine ferie, come i cani nella piazza di Avetrana.

(Agosto 2010)

Poesia ionica

Se amarti è
come cogliere ciliegie
perdersi nelle ioniche pinete
quando a notte il mare
chiude le conchiglie,
tu capisci, bene mio,
che un sol punto di materia
può creare le galassie
e gli alberi del pane
e i rubini sotterranei
s’ogni fibra minerale
della bocca mia e tua
in un bacio fa la sintesi
del mondo.

martedì 4 gennaio 2011

L'oro di Napoli

“La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i millenni, e forse ne troveremo l’origine nelle convulsioni del suolo, negli sbuffi di mortifero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde che scavalcano le colline, in tutti i pericoli che qui insidiavano la natura umana; è l’oro di Napoli questa pazienza.”
Giuseppe Marotta, L’oro di Napoli

Spaghetti asciugati al sole

Visitai e non visitai, in Liguria, un grande pastificio. […]
Gli spaghetti. (Non so spiegarmi. Fui, di colpo, un veterano quando vede la bandiera.) […] Non erano nel 1912 a Napoli con me? Avevo dieci anni e gli spaghetti stavano in pochi metri di terrazza, su pertiche, ad asciugarsi al sole. Parevano una pianta; nei vicini giardinetti le viti ne ripetevano il motivo […]
Chi entra in Paradiso da una porta non è nato a Napoli, noi il nostro ingresso nel palazzo dei palazzi lo facciamo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Fummo allattati in fretta, mentre cuocevano gli spaghetti; subito le nostre mamme ci staccavano dal seno e ci mettevano in bocca un frammento di spaghetto; prima lo avevano deterso, con le loro labbra, da ragù […]
[…] sono il cibo ideale per chi ha sfacchinato dalla mattina alla sera e non ne può più; sono gli spaghetti all’aglio e all’olio.
[…] conditeli, per le veglie funebri, di sola ricotta. […] Sulla matassa degli spaghetti il castissimo triangolo di ricotta splende; l’uomo lo frantuma con la forchetta, tutto è bianco nel suo piatto e nel suo cuore […]

Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli

Taralli inzuppati in mare

È in quest’acqua lieta, e non in quella imbronciata, che bisogna inzuppare i ‘taralli’. Si tratta di ciambellette con strutto e pepe, localmente famose, alle quali la salsedine marina conferisce un sapore anche più allegro, persuasivo, starei per dire ondulante come il moto stesso della barca. I ‘taralli’ si mangiano appunto in canotto, abbandonando i remi, fissando per esempio le case di Margellina che fremono e pulsano come se fossero dipinte su una camicetta. Ora un mare che si è mangiato tante volte nei ‘taralli’, nei molluschi e nei crostacei più complicati ed eccitanti, qualcosa deve aver lasciato nel nostro sangue. Certi giorni basta uno scroscio di fontana, una fuga di nuvole, un soffio di scirocco, a far battere questo mare nei nostri polsi, mentre le dita istintivamente si incurvano come sulla impugnatura di un remo.”

Giuseppe Marotta, L’oro di Napoli