lunedì 7 febbraio 2011

Viaggio romano

La cosa più romana del mio fine settimana a Roma è stato un viaggio involontario con una comitiva capitolina.

Quello di fronte a me indossa pantaloni a fantasia scozzese leggera profilati di celeste e bianco, scarpette di camoscio grigio-blu, camicia fresca di bucato azzurrina e maglioncino di cotone bianco; la barbetta si rinforza sui lati, gonfiando le ganasce; i capelli, tendenti al biondo, sono tenuti dietro in un codino. 
Dal lato finestrino siede un altro, faccia alla Renato Zero, capelli più corti con la riga in mezzo, denti distanziati, occhiali con lenti grigio-fumo, risata alta, femminile, che ricorda un comico dal ritornello ossessivo "Chi è Tatiana?", pantaloni di fustagnetto, maglioncino grigio a costine, camicia grigetta, sciarpa annodata alla Bocelli, orologio importante.
Quello con il maglioncino bianco da skipper legge una rivista specializzata di moto. Parla con un terzo, occhialetti da bravo ragazzo, capelli perfettamente rifilati con leggera cresta caudale, maglioncino zip da cui emerge la camicia rigata rosa e bruno-castoro, borsello piquadro. Discutono di una carrozzeria - si occupano forse di macchine d'epoca - e di un certo cliente, citando cifre a tre quattro zeri; commentano la rivista di moto a cui sono abbonati e la velocità di questa freccia rossa. Attorno sfilano i colli laziali, assolati, d'un verde-febbraio. I colori non sono ancora maturi, bisognerà aspettare giugno per i profumi macerati al sole, per la campagna esplosa. Ma pensando al grigio e piatto Brandenburgo che circonda Berlino, mi viene per contrasto un'immagine di campi russi, steppa, fili d'erba scoloriti, distanze ostili, case rigide su dura terra.
Quello con la sciarpa parla a un quarto, scherza su Lele Mora, canta un ritornello ironico e godereccio. Il quarto sta leggendo Quattroruote; ora dà una gomitata compiaciuta ad un quinto. Scopro che due blocchi di sedili sono occupati da questa comitiva di quarantenni romani, piacenti, sicuri di sé.
Ad un certo punto comunicano tutti insieme fra loro, occupano l'aria con le voci, si rimbalzano scherzi da un sedile all'altro: lo scompartimento diventa una piazza. Sembra di essere in un film di Opzetek. Si chiamano per cognome: Rossini, Marinelli. Parlano troncando tutte le parole, discutono la scelta della trattoria dove mangiare sabato.
Ora quello con il codino chiede le pringles e una bottiglietta d'acqua alla donna che spinge il carrello nello spazio fra i sedili, ma prima si passa una mano sui capelli, aggiusta la voce, gli viene fuori suadente, morbida.
Penso che l'Italia rimarrà sempre così com'è, e che appartiene a questa classe di persone, non ben tracciate, ai carrozzieri che intascano la metà dei guadagni in nero, che hanno la barca e seguono Valentino Rossi, agli assicuratori che indossano le scarpe di camoscetto, quarantenni single che non se ne andrebbero mai dall'Italia - se non per aprire un residence ai Caraibi -, perché l'Italia appartiene a loro.
Non illudetevi, commentatori dei nostri tempi che tentate teorie massime: imparate da quelli che fregano il fisco per dar prova di intelligenza e audacia, da quelli che vivono al sole consapevoli di non parlare alcuna lingua straniera, il cui estremo grado di teorizzazione può riguardare solo una strategia calcistica. Hanno imparato dalla mamma come vestirsi, vanno alle terme, fanno girare cifre sommerse, hanno un'idea di futuro possibile, senza macchie e senza ombre, e amano l'Italia, la amano così com'è.
E chi sta meglio di loro.
Ora uno dice: "Ammazza che silenzio su sto treno, aò!" e fischietta per compensare, con un certo grado di maestrìa allenata, la melodia di Cenerentola: I sogni son desideri...

Un milanese e un romano: non sono italiani allo stesso modo.
Mentre scrivo, siamo fermi da dieci minuti a Firenze. Uno dei romani batte sul finestrino: "'Nnamo!". Quello stesso controlla guardando fuori un uomo e una donna adulti, innamorati, avvinghiati su una panchina. "E basta mo'! So' du' ore che se baciano questi, mo' se consumano. Se stano a bacià da quando ce siamo fermati, stano da du' ore in apnea!". E mi fa ridere, mi devo nascondere la bocca dietro due dita.
Adesso si alzano in cinque, all'invito di uno di loro: "Oh, 'nnamo a farci un caffè". Su questo treno c'è per bar solo un rettangolino nudo con una macchinetta da caffè d'emergenza, ma loro avanzano nei loro pantaloni attillati che avvolgono le gambe muscolose, da antichi romani, avanzano per il corridoio del treno con la stessa baldanza che se fossero nel loro quartiere. Passando affianco a me, uno di loro mi dice di stare attenta ai tre che mi sono seduti attorno. Vorrei interrogarli, sapere cosa faranno a Milano, ma mi dico che in questo momento il più piccolo elemento femminile, la minima contaminazione alla violetta guasterebbe la perfetta scena iper-cinematografica tutta al maschile. Questi giovani uomini che ruminano la loro erba fresca di terra e calda di sole, che ripetono gli stessi scherzi di quando avevano sedici anni, facendo il verso agli annunci automatizzati delle ferrovie, non sanno di essere parte dei mali italiani che loro stessi denunciano. In fondo, però, solo per il fatto che riescono a ridere da due ore, che hanno trasformato la carrozza numero 10 in un teatro, che mi hanno fatto ridere, su questo treno che mi riporta nella dura Milano, li amo come se fossero compaesani ritrovati.